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Salviamo il verbo salvare

A un protestante dovrebbe inarcarsi almeno un sopracciglio di fronte all’abuso del verbo “salvare”

In questi giorni abbiamo ricevuto un utile strumento da parte dei Giovani Metodisti Europei: una guida per le comunità locali che propone alcune iniziative concrete di contrasto alla crisi climatica. Quattro pagine scritte e presentate in maniera semplice e accattivante, alla portata di tutti e tutte. (http://www.metodisti.it/wp-content/uploads/2023/01/GUIDA-ITA.pdf)

Senza nulla togliere al valore dell’iniziativa, c’è un grosso “però” che riguarda il titolo: “Come salvare il pianeta”. A un protestante dovrebbe inarcarsi almeno un sopracciglio di fronte all’abuso del verbo “salvare” che troviamo qui come altrove: salvare il pianeta, salvare i bambini, salvare i naufraghi, salvare l’Africa, salvare i poveri, salvare le vittime, salvare gli animali, salvare l’ospedale, salvare la fabbrica, salvare i posti di lavoro. Un cristiano (e un cristiano protestante in particolare) sa che solo Dio opera la salvezza e, mi si perdoni la battuta, “non ci sono santi!”

Certo, non bisogna cadere nell’estremo opposto, cadendo nella tentazione di pensare che «Siccome Dio salva, allora io non faccio niente». Anzi, la giustizia climatica dovrebbe essere in cima all’agenda (dal latino, “le cose da fare”) di tutti gli esseri umani, con vari livelli collettivi e individuali di responsabilità. Le chiese non sono esenti da questa vocazione. Allo stesso tempo, però, dovrebbero contribuire col proprio specifico in ogni discussione sul bene comune.

Quando parliamo di pace, ad esempio, il contributo cristiano è nell’attenzione alla riconciliazione, fondata su un processo di verità, e nella chiamata a costruire una società dove tutte le persone siano incluse e dove nessuna sia lasciata indietro. Potremmo citare vari esempi di contributi cristiani al dibattito sull’economia, sulla politica, sulla scienza e sul diritto.

Contribuire col proprio specifico non equivale, dunque, a mettere una bandierina sulle questioni, ma significa riconoscere che “noi abbiamo bisogno degli altri e gli altri di noi” affinché il dibattito sia ampio, profondo e proficuo. Le persone di fede cristiana sono chiamate a partecipare a questi dibattiti con spirito di servizio e di umiltà, confidando di ascoltare posizioni che non conoscevano e magari perfino farle proprie.

In particolare i figli e le figlie della Riforma dovrebbero avere il carisma di vedere la realtà in maniera integrata. Inoltre, per dirla con Heinrich Böll, dovrebbero avere l’ossessione per il dettaglio. I protestanti dovrebbero essere allergici all’adagio “Tanto è lo stesso”.

Certo, c’è l’influenza dell’inglese, lingua in cui è stato probabilmente redatto il documento originale dei giovani metodisti. In inglese il verbo to save ha molteplici significati, tra cui preservare, conservare o risparmiare (da qui il calco del linguaggio informatico di “salvare” i file).

Cosa c’entra questa digressione linguistico-teologica con la giustizia climatica? Be’, se davvero stesse a noi salvare il pianeta, ci sarebbe ben poco da sperare. Se invece comprendiamo e di conseguenza annunciamo che Dio ha in mano le sorti della sua Creazione, allora il nostro impegno a prenderci cura del Giardino che ci è stato affidato acquisterà un senso vero.

La retorica di molte campagne benefiche è spesso angosciante (e non mi riferisco ai giovani metodisti) e finisce per presentare la responsabilità di far bene nel mondo come un peso insostenibile. Per invertire la rotta della crisi climatica, invece, abbiamo bisogno di speranza. Noi cristiani e cristiane sappiamo che non possiamo salvare il mondo, ma nutriamo la speranza che Dio lo salvi.

E se non siamo noi a portare questa speranza nel dibattito comune, chi la porterà? Ma soprattutto, che ci stiamo a fare?

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