Il rapporto fra verità e libertà coinvolge tutte le chiese
03 gennaio 2023
La scomparsa di Joseph Ratzinger e la necessità di un ritorno alla spiritualità biblica
«Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica»: Joseph Ratzinger scrisse queste parole nel 1969 in un commento all’edizione inglese dei documenti promulgati dal Concilio Vaticano II. Parole che richiamano inevitabilmente la celebre frase di Martin Lutero sulla coscienza vincolata esclusivamente alla parola di Dio.
Non sono in grado di valutare l’influenza del Riformatore di Wittenberg sul pensiero di Joseph Ratzinger; in ogni caso per comprendere la parabola teologica di quest’ultimo ci vorranno anni di studio e di ricerche. Tuttavia, sul piano più emotivo che razionale, oserei affermare che la forte ondata di rinnovamento suscitata dal Concilio Vaticano II si sia infranta sugli scogli artificiali costruiti insieme da Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger. È un dato oggettivo che dal 1981 (Ratzinger nominato alla guida della Congregazione per la dottrina della fede) fino al 2012 sono stati sanzionati in vari modi più di cento teologi e teologhe ritenuti “eterodossi”, rispetto al magistero vaticano. In questo elenco spiccano i nomi di Uta Ranke-Heinemann (1927-2021) e Hans Küng (1928-2021). Cito questi due nomi perché si tratta non solo di due coetanei di Joseph Ratzinger, ma anche di suoi (ex) colleghi e amici personali. Penso che tali dolorose decisioni siano state dettate al custode della dottrina cattolica da una coscienza seriamente preoccupata delle sorti di un’istituzione ecclesiastica del tutto simile al colosso dai piedi di argilla (Daniele 2, 31-35).
Invero, il pontificato di Benedetto XVI (2005-2013) ha fatto emergere in modo drammatico questa profonda crisi. Un pontificato controverso e, sotto certi aspetti, anche contradittorio, è stato indubbiamente un tentativo di salvare il salvabile. Tutto ciò, però, è stato superato dalla decisione del pontefice romano di rinunciare all’esercizio attivo del suo ministero; una decisione senza precedenti negli ultimi sei secoli (Gregorio XII nel 1415, durante il cosiddetto scisma d’Occidente). La portata simbolica di tale gesto è inequivocabile: il ministero del vescovo di Roma non è diverso da altri ministeri episcopali. Un gesto profondamento moderno di un papa che ha combattuto contro la modernità per difendere la fede dagli assalti del relativismo.
Questa strenua difesa della fede ci interroga sul rapporto tra libertà e verità. Non solo la chiesa cattolica è in crisi, anche le chiese della Riforma devono fare i conti con le conseguenze pratiche della secolarizzazione. Da più parti dell’articolato universo evangelico si levano voci favorevoli a una svolta conservatrice nell’ambito della teologia e dell’etica. Tali voci andrebbero prese sul serio a patto che il conservatorismo non venga proposto come unica panacea ai problemi della “modernità liquida” teorizzata da Zygmunt Bauman. Abbiamo imparato da Karl Popper che per un problema esiste sempre più di una soluzione.
A me piace pensare che una delle soluzioni ai problemi della cristianità di oggi sia il ritorno a una spiritualità saldamente biblica e autenticamente mistica. «La mistica non crea distanza dall’altro, non crea una vita astratta, ma piuttosto avvicina all’altro, perché si inizia a vedere e ad agire con gli occhi, con il cuore di Dio» (udienza generale del 12 gennaio 2011). Sto cercando di interiorizzare questo insegnamento di Joseph Ratzinger.