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Una società più inclusiva per le nuove generazioni

A colloquio con Andi Nganso, medico di origine camerunense ed evangelico: l’organizzazione di un festival sulla diversità è occasione per riflettere sulle disparità sociali e sui fenomeni di razzismo accentuatisi negli ultimi due anni

Dal 24 al 26 giugno si terrà presso lo spazio Base, via Bergognone 34 a Milano, il Festival DiverCity, una “tre giorni” di conferenze, workshopperformance artistiche per riflettere sui temi legati alla diversità. Il titolo scelto quest’anno per il festival, giunto alla sua V edizione, è «Rest – Restare, Esistere, Restituire». Ne abbiamo parlato con il fondatore, il dottor Andi Nganso, originario del Camerun, membro della chiesa battista di Varese, che il nostro giornale intervistò nel gennaio 2018 quando una paziente giunta nell’ambulatorio pubblico rifiutò di farsi visitare da lui perché “nero”.

«Quest’anno abbiamo deciso di affrontare il tema del riposo e della cura delle persone vulnerabilizzate: nella nostra società – caratterizzata da razzismo sistemico, maschilismo, misoginia, pregiudizi –, gli afrodiscendenti, le donne, i disabili, le persone Lgbt+, fanno fatica a trovare spazi sicuri dove abbassare la guardia, prendersi una bella pausa e ricaricarsi prima di ricominciare. Questa difficoltà è cresciuta durante la pandemia: mentre per due anni è circolata la narrazione che tutto era fermo e avevamo del tempo per riflettere sulle nostre abitudini e comportamenti, un pezzo di società non si è mai fermato. Durante la pandemia sanitaria, infatti, i soggetti “razzializzati” sono stati esclusi dall’accesso alla vaccinazione e alla salute; chi era senza cittadinanza non ha visto migliorare la propria situazione, e chi aveva difficoltà lavorative ha perso completamente il sonno. Sentiamo la necessità di curare il nostro trauma generazionale che viene riattivato dagli episodi quotidiani di razzismo sistemico, che si risveglia ogni volta che un giovane nero disarmato viene ucciso, proprio come George Floyd ammazzato nel maggio 2020, in piena pandemia. A tutte le nostre anime ferite e bisognose di riposo e cura dedicheremo il Festival di quest’anno».

– Che cosa prevede la tre giorni milanese?

«Inizieremo venerdì 24 giugno con una mostra fotografica di diversi artisti italiani, africani, americani; ci saranno inoltre numerosi dibattiti, laboratori, eventi musicali e uno spettacolo teatrale. Il programma non avrà tempi serrati: vogliamo provare a goderci le pause tra un evento e l’altro in modo da favorire la socializzazione tra i partecipanti. Domenica, infine, ci sarà una celebrazione laica (sunday service) con la condivisione di musiche e letture composte da giovani afrodiscendenti. Quest’anno abbiamo avuto il patrocinio del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione, dell’ambasciata dell’Argentina e di quella di Capoverde, e ancora una volta quello del Comune di Milano. Il rinnovato patrocinio da parte dell’istituzione comunale ci impegna ancor più a far sì che gli amministratori locali ascoltino le nostre storie, scoprano prospettive che spesso ignorano e abbraccino l’idea che la nostra luce, quella di tanti e tante di noi resi vulnerabili dalla storia e dalle dinamiche sociali, vuole illuminare di bellezza e di giustizia Milano e le altre città di questo nostro paese».

– Purtroppo, episodi di razzismo si verificano quotidianamente in Italia. Pochi giorni fa a Roma un tassista si è rifiutato di far salire sulla sua vettura il sindacalista ivoriano Aboubakar Soumahoro, per poi far salire una cliente bianca…

«Bisogna dire con forza che c’è ancora un lavoro profondo da fare dal punto di vista legislativo che miri a inserire degli antidoti alle discriminazioni e al razzismo. A mio avviso una delle questioni prioritarie da attuare è la riforma della cittadinanza, che è la madre di tante altre battaglie: lo Stato deve fare di tutto per riformare un sistema che per legge continua a discriminarci e ci rifiuta come figli a motivo della razza. Una volta rimosso questo principio razzista, daremo a tanti giovani afrodiscendenti di seconda generazione che amano l’Italia e hanno deciso di rimanervi, la possibilità di progettare qui la loro esistenza in serenità».

– Sebbene non lo si voglia riconoscere, il nostro è già oggi un paese multiculturale… 

«Il volto dell’Italia è mutato da tanti anni ma le Istituzioni italiane faticano ad accettare questo cambiamento e a esserne acceleratori: ci vorrebbe pochissimo per dare man forte a tutte le organizzazioni che sul territorio lavorano per posizionare l’Italia dalla parte giusta della storia su questi temi. È una grande fatica! Io stesso sono un cittadino italiano di fatto ma senza cittadinanza, con tutte le difficoltà che questo comporta sul piano personale e professionale».

– Che cosa la spinge a non mollare? Cosa sostanzia il suo impegno ad andare avanti?

«Tante cose! In primis, essere parte di una storia di “guardiani” del diritto delle persone: quando penso a mio nonno, pastore evangelico che ha lottato per tanto tempo nella sua comunità di riferimento per la giustizia di chi aveva meno di lui, trovo la forza per andare avanti. E anche quando penso alla mia famiglia, ai miei nipotini, ricevo da loro una spinta a proseguire: vorrei che i più piccoli potessero essere parte di una società meno complicata di quella in cui oggi viviamo. Certo, noi già siamo il sogno dei nostri antenati, poiché è già stato fatto un pezzo di storia importante sul cammino dei diritti, ma dobbiamo continuare a lavorare perché coloro che verranno dopo abbiano un futuro migliore. Noi siamo nel mezzo di questo cammino e in questo posizionamento vogliamo consegnare ai giovani una società più giusta e inclusiva di quella di oggi». 

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