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Povero lavoro e lavoro povero

Il 12 maggio, alla presenza del ministro Orlando, la Diaconia valdese ha partecipato alla prima edizione dell’Oxfam Festival che portava un titolo impegnativo: «Creiamo un futuro di uguaglianza»

Il 12 maggio, alla presenza del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando, la Diaconia valdese/Comm. sinodale per la diaconia (Csd) ha partecipato alla Prima edizione dell’Oxfam Festival dal titolo Creiamo un futuro di uguaglianza. Focus dell’incontro, la presentazione del nuovo Rapporto Disuguitalia: ridare valore, potere e dignità al lavoro, un’analisi documentata che fotografa la crisi del lavoro. Tra i punti dolenti: precarietà, salari bassi, saltuarietà e discontinuità lavorativa. 

«Le forti e crescenti disuguaglianze, lo sfruttamento, l’insicurezza, mostrano che il valore sociale del lavoro è scarsamente riconosciuto in Italia», dice il segretario esecutivo della Diaconia valdese, Gianluca Barbanotti. I dati sono preoccupanti: «in Italia un lavoratore su otto vive in una famiglia con reddito insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base e l’incidenza della povertà lavorativa è cresciuta di tre punti percentuali in poco più di un decennio, passando dal 10,3% del 2006 al 13,2% del 2017. Il fenomeno colpisce di più chi vive in nuclei monoreddito; chi ha un lavoro autonomo e chi tra i dipendenti lavora nel corso dell’anno in regime di tempo parziale. Anche l’incidenza dei lavoratori con basse retribuzioni è in forte crescita passando dal 17,7% del 2006 al 22,2% nel 2017. Un altro dato dice che la maggiore vulnerabilità è riscontrabile tra le donne. Il lavoro povero è dunque più diffuso nel segmento femminile della forza lavoro».

– La Diaconia Valdese da tempo è in partnership con Oxfam su diversi fronti, com’è nata questa collaborazione? 

«Lavoriamo dal 2014 su alcuni progetti, fra i quali ricordo quelli alle frontiere. Abbiamo consolidato in questi anni una forte sinergia grazie alla firma di un protocollo, in particolare per la creazione e la gestione dei Community Center in diverse città italiane (Torino, Milano, Bologna, Firenze, Napoli e Catania gestiti dalla Csd con il supporto dell’Otto per mille valdese, e Arezzo, Empoli gestiti da Oxfam). L’intesa con Oxfam si basa su una riconosciuta complementarietà: la Diaconia ha una forte vocazione operativa sui servizi, mentre Oxfam è una Ong internazionale, fortemente connotata su valori laici legati alla lotta alle povertà».

– Grazie ai dati raccolti nei Community Center gestiti dalla Diaconia valdese è stato possibile sfatare anche un mito consolidato, che in Italia vi sia “poca voglia di lavorare”. E così? 

«I numeri e i dati riportati nel documento sono eloquenti e fotografano un paese dove la pandemia ha colpito una società già sofferente per la progressione delle diseguaglianze economiche, con ascensori sociali perennemente “in panne” e con lavoratori troppo poveri. Questi due anni raccontano storie lontane dal mood mediatico. I nostri operatori non incontrano persone svogliate e piene di pretese, ma uomini e donne disponibili a fare qualunque lavoro, pur di guadagnare qualcosa. La pandemia ha “disoccupato” senza nessun ammortizzatore migliaia di lavoratori (spesso in nero) della ristorazione, del turismo e di quasi tutti i comparti. Questi dati restituiscono un ritratto sociale di persone che lavorano “per mangiare”».

– Il 2021, dunque, ha visto una maggiore propensione rispetto al periodo pre-pandemico ad accettare qualsiasi lavoro?

«Nei primi mesi del 2020 ci siamo detti “andrà tutto bene…”. Non è andato tutto bene, soprattutto per i poveri dal lavoro precario e saltuario. Molte persone si sono presentate agguerrite, determinate ad accettare qualunque lavoro, magari una serie di “lavoretti” pur di non perdere la dignità di “guadagnarsi da vivere”».

– Si può affermare che la Diaconia attraverso le sue strutture e i suoi servizi rivolti ai più vulnerabili sia oggi un presidio necessario per misurare la temperatura della società che ci circonda… 

«Questa è una nota che mi preme sottolineare. Il nostro compito non è solo fornire servizi a migliaia di persone, ma anche attivarci come orecchio sociale, come luogo di ascolto del respiro di quella parte di società che non ha la voce e i polmoni per farsi sentire». 

– In occasione della presentazione del Rapporto lei ha affermato che «gli italiani in una situazione di povertà lavorativa spesso sono più soli degli stranieri poveri». 

«Provo a precisare questa affermazione che potrebbe essere fraintesa. In Italia, ancor oggi, quasi il 50% delle persone trova lavoro grazie a reti familiari, amicali e di conoscenza. Essere poveri e diseguali, in Italia più che altrove, significa anche non avere reti familiari, amicali e di conoscenza che possano appoggiare la ricerca di un lavoro. Se alcuni immigrati possono contare sulla rete dei connazionali, che peraltro tende a riproporre sempre le stesse soluzioni a tutti i suoi membri, molti italiani poveri economicamente, e a livello relazionale, non hanno neppure quella». 

– La Diaconia valdese è anche un “datore di lavoro”. Quanto si sente coinvolta in questa veste dal tema del lavoro?

«Con oltre 600 persone che lavorano con noi, ci sentiamo chiamati in causa in modo diretto quando si parla di lavoro e anche di lavoratori poveri. L’argomento affrontato durante il convegno richiama una complessità di temi che la diaconia, e direi anche la chiesa, non possono ignorare. All’ordine del giorno c’è il livello troppo basso dei salari. Oggi, per la prima volta dagli anni ‘60 del secolo scorso, il rischio povertà tocca anche i lavoratori». 

– Dunque?

«La posizione della Diaconia valdese, in accordo con la Tavola valdese, sulla questione dei contratti è molto chiara: abbiamo chiesto alle altre organizzazioni datoriali di rinunciare al “proprio” contratto, come noi saremmo disponibili a fare, per costruire un unico contratto del settore socio-assistenziale. Questo consentirebbe di essere più compatti con l’ente pubblico per richiedere adeguamenti in concomitanza con gli aumenti contrattuali e, quindi, in ultima analisi poter remunerare in modo più adeguato i lavoratori». 

 

 

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