Napoli. La lupa nella gabbia
31 marzo 2022
Lo spettacolo apre domani sera il programma di formazione sul contrasto alla violenza contro le donne, organizzato dalla Fdei. A colloquio con l’attrice Federica Palo
Dall’1 al 3 aprile a Napoli la Federazione delle donne evangeliche in Italia (Fdei) organizza un programma di formazione e confronto sul contrasto alla violenza contro le donne preparato insieme alle Donne della Rete Luterana dal titolo «Ricominciamo da te. La violenza sulle donne: riconoscerla per intervenire».
Il programma si apre venerdì alle ore 19 presso la Chiesa luterana in via Carlo Poerio 5 con lo spettacolo teatrale «La lupa nella gabbia» con Federica Palo, alla quale abbiamo rivolto alcune domande.
– Qual è la genesi de “La lupa nella gabbia”?
«Lo spettacolo nasce dalle tante testimonianze raccolte durante più di 20 incontri in carcere svolti all’interno del progetto “Gli ultimi saranno”, e dal laboratorio tenuto da me per due anni nella sezione femminile del carcere di Salerno. Sentivo l’esigenza di raccontare il punto di vista femminile sulla detenzione e di dare voce e corpo a tutte le donne che avevo incontrato in questo tipo di strutture: mamme, nonne, figlie, sorelle ecc. Così Raffaele Bruno, che è il regista dello spettacolo e autore insieme a Claudia Balsamo, ha trasformato in testo drammaturgico le poesie, i pensieri e le descrizioni degli aspetti diversi della quotidianità della vita carceraria scritti dalle donne che abbiamo incontrato.
La lupa nella gabbia poi aveva bisogno di una colonna sonora che potesse raccontare con la stessa profondità cosa c’è in un animo recluso, cosa guarda chi ha una visuale limitata, e oltre quali mura vorrebbe arrivare per riconoscersi e far ripartire la sua vita da dove l’aveva lasciata. Per questo, lo spettacolo si avvale di una collaborazione d’eccezione, quella con il gruppo musicale napoletano “Gatos do mar” (Annalisa Madonna, voce; Gianluca Rovinello, arpa; Pasquale Benincasa, percussioni) che ha composto le musiche originali che vengono eseguite dal vivo».
– Cosa evoca il titolo dello spettacolo?
«La gabbia richiama chiaramente la cella di reclusione, ma anche una gabbia interiore perché la libertà è prima di tutto uno stato mentale. Sembra assurdo dirlo ma in carcere mi è capitato di conoscere persone più libere di me, che a fine incontro avevo la possibilità di ritornarmene a casa. La lupa invece ha molte affinità con la donna protagonista: entrambe sono forti, coraggiose, molto intuitive, estremamente amorevoli verso i piccoli e verso il branco».
– Nella costruzione del personaggio ha trovato delle difficoltà? Se sì, come le ha affrontate?
«Per studiare questo personaggio mi sono avvalsa dell’aiuto delle ragazze detenute – ora sono tutte libere! – incontrate qualche anno fa nella sezione femminile di Salerno. Queste donne mi hanno dato una grande mano innanzitutto a rendere il testo credibile anche per chi avesse vissuto un’esperienza carceraria, e poi mi hanno dato delle dritte su come aggiungere delle sfumature al personaggio che da sola non sarei riuscita a realizzare. Infine, sono stata molto aiutata da una mia amica che è stata presso il carcere di Rebibbia: anche lei è in libertà da tempo ed è stata molto generosa nell’offrirmi il suo aiuto su un tema per lei forte. Credo che non avendolo vissuto in prima persona, sia difficile raccontare il carcere in maniera credibile, soprattutto lontano dagli stereotipi che di solito vediamo in televisione e spesso anche in teatro. Sembra strano, ma nella enorme sofferenza che caratterizza il mondo carcerario, ci sono episodi molto umani che solo chi li ha vissuti te li può raccontare e che non hanno niente a che fare con le serie tv: è vita vera ed è quella che abbiamo cercato di portare in scena con La lupa nella gabbia».
– Questo spettacolo è stato rappresentato in qualche carcere femminile? Come è stato accolto?
«Siamo andati nella sezione di alta sicurezza femminile del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e l’accoglienza che lo spettacolo ha ricevuto è stata commovente. Non c’erano spettatori e attori ma un unico grande cerchio in cui ognuno si specchiava nell’altro, dando vita ad un bellissimo momento catartico, che è ciò che il teatro dovrebbe sempre fare, come previsto dalla sua funzione sociale originaria. Il 16 maggio prossimo saremo al carcere femminile di Pozzuoli: speriamo che anche lì si possa creare la stessa atmosfera».
– Qual è il messaggio che questo lavoro vuole comunicare invece all’esterno del mondo carcerario?
«Per quanto sembri strano, come dicevo prima, fuori dal carcere ci sono tante persone che sono meno libere anche solo di esprimere un dissenso o una preferenza, meno libere da stereotipi o convenzioni insopportabili. Le persone che si trovano in carcere paradossalmente sono più autentiche. Fuori dal carcere raccontiamo la possibilità di sbagliare e il diritto ad avere una seconda possibilità. E tutti, proprio tutti e tutte ne hanno diritto, nessuno escluso. A volte si pensa che dietro le sbarre ci siano delle strane creature diverse da noi, ma siamo tutti esseri umani. Ognuno e ognuna di noi, per motivi anche non tanto gravi, un giorno potrebbe trovarsi lì. Questo spettacolo prova ad essere un incentivo a conoscere il carcere come parte integrante della nostra società, che non può essere lasciata ai margini. Uno è tutti. E tutti abbiamo il diritto di sentirci liberi, libere».