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Il disagio adolescenziale

La pandemia si è aggiunta a un ambiente culturale che già lasciava poco spazio all’elaborazione delle emozioni. Intervista al dottor Piero La Monica, psicologo e psicoterapeuta presso l’Istituto valdese La Noce di Palermo

Il disagio mentale cresce tra i giovani. L’allarme lo aveva lanciato lo scorso ottobre l’Unicef presentando il rapporto La Condizione dell’infanzia nel mondo, da cui emerge che 1 giovane su 5 tra i 15 e i 24 anni dichiara di sentirsi spesso depresso o di avere poco interesse nello svolgimento di attività. La scorsa settimana la rivista medica Jama Pediatrics ha pubblicato una ricerca che ha incluso 29 studi condotti su oltre 80.000 giovani: i dati dicono che oggi un adolescente su 4, in Italia e nel mondo, ha i sintomi clinici di depressione e uno su 5 segni di un disturbo d’ansia. 

La salute mentale fra i giovani è in sofferenza e la pandemia, con le restrizioni che hanno determinato una perdita di esperienze, di socialità, non ha fatto altro che acuire un fenomeno già in atto. Lo conferma il dottor Piero La Monica, psicologo e psicoterapeuta presso l’Istituto valdese La Noce di Palermo.

«La pandemia ha evidenziato criticità e vulnerabilità già preesistenti nell’adolescenza, fase in cui i ragazzi sono coinvolti in una maggiore esplorazione di alcune aree della propria vita. Oggi si parla tanto di analfabetismo emotivo: i ragazzi non conoscono tutta la gamma delle emozioni, non le sanno nominare, esprimere, modulare, e di conseguenza viene meno il processo di “mentalizzazione degli affetti”, cioè la capacità di identificare, nominare, esprimere, modulare le emozioni connesse con il pensiero. Poiché spesso le emozioni sono connesse con gli agiti, senza essere supportate da un pensiero, si verificano delle disconnessioni tra affetti, emozioni, pensieri, parole, che creano spaesamento, disagio, sofferenza. Il disagio giovanile va affrontato con uno sguardo ampio, interdisciplinare: le diverse discipline, tra cui la genitorialità, devono mettersi in dialogo, costruire sinergie in un contesto culturale profondamente mutato».

– Che cosa è cambiato nella sua osservazione? 

«È cambiata una generazione di genitori, che pian piano si sono impoveriti culturalmente, e per cultura non intendo il sapere tecnico: i genitori che incontro sono spesso avvocati, architetti, insegnanti; ciò che manca loro è il sapere dello stare insieme, dell’essere consapevoli dei propri stati affettivi. Nella nostra epoca si cresce in una sorta di contenitore della performance, della prestazione dove gli adolescenti sono costantemente pressati dagli adulti che esigono un buon rendimento facendo riferimento alla propria storia e non alla storia dell’oggi. Prendiamo a esempio l’uso dei videogame: noi adulti siamo i cosiddetti “immigrati digitali”, mentre i giovani sono i “nativi digitali”: la differenza è sostanziale, gli adulti si sono spostati da un mondo a un altro spesso non conoscendo i codici del nuovo mondo. Il risultato è che la comunicazione tra adulti e gli adolescenti si interrompe. Ma chi deve fare questo processo di integrazione? Forse entrambi».

– Spesso il genitore non accetta di riconoscersi bisognoso di imparare…

«Nel corso del mio lavoro ho capito che si diventa genitori grazie ai figli: senza di loro tu non sei genitore. Diventi ogni giorno genitore perché c’è tuo figlio che ti sollecita a questa crescita. Come genitore posso cambiare perché anche l’altro è motore di crescita per me: non c’è un sapere che è riversato dall’alto verso il basso, ma lo scambio deve avvenire nella circolarità».

– Le difficoltà che accompagnano la crescita degli adolescenti sono aumentate con la pandemia? 

«Ci sono tanti ragazzi e ragazze che hanno difficoltà a socializzare, a stare con i coetanei non perché hanno vissuto una restrizione fisica a causa del Covid ma perché è richiesta loro una fatica nell’armonizzare, proprio come le corde di una chitarra, le emozioni con le variabili contestuali. Il cosiddetto “ritiro sociale” ha a che fare con questa disarmonia delle corde emozionali che non permette loro di stare in un’esperienza di convivialità. Gli adolescenti in realtà non perdono il bisogno di stare insieme ma lo cercano altrove, a esempio online. Quando un ragazzo è chiuso ore e ore nella propria stanza a “chattare”, a giocare su un dispositivo elettronico, viene visto dai genitori come totalmente isolato; in realtà, il giovane si trova all’esterno di quella stanza con coetanei, amici, in un’altra dimensione che è vera, anche se virtuale, e in cui si costruiscono amicizie e legami. In questo flusso di connessioni i ragazzi non hanno perso la socialità».

– Ma allora non c’è da preoccuparsi se un adolescente sta chiuso nella sua stanza a chattare molte ore?

«Ci sono degli indicatori importanti del malessere del ragazzo che non vanno trascurati, come a esempio l’alterazione del ritmo veglia-sonno, che ha conseguenze psicologiche e organiche importanti. Il ritiro sociale diventa patologico quando viene a sbilanciarsi la relazione con il reale. Il problema sorge quando l’adolescente non trova lo spazio e il tempo per andare a fare una passeggiata o una pizza con gli amici, cioè quando non riesce a vivere relazioni concrete e vive – cioè con dei corpi umani – che gli risultano “faticose”. Stare insieme e raccontarsi senza la mediazione di uno smartphone diventa esperienza difficile. Per rispondere alle problematiche che hanno a che fare con le dipendenze da dispositivi elettronici e web, a breve sarà operativo a Palermo un ambulatorio di psicoterapia per adolescenti che offrirà uno spazio di accoglienza e intervento clinico ed educativo. Il Centro diaconale La Noce, attraverso un progetto finanziato da "Fondazione con il Sud", ha costituito un’équipe multidisciplinare di professionisti, di cui sono il coordinatore, che lavorerà in un’ampia rete che riguarderà alcune scuole e i Sert. Si sta pensando di coinvolgere anche i pediatri».

— Il Centro diaconale La Noce da anni offre anche un servizio domiciliare dedicato a minori e famiglie che vivono una situazione di disagio educativo e rischio psico-sociale…

«Sì, il Servizio educativo domiciliare (Sed) è rivolto a bambini e adolescenti di età compresa tra i 6 e i 14 anni e fornisce una rete di sostegno alle famiglie: supporta i genitori, rafforza le loro competenze, offre attività di formazione e socializzazione per i minori. È come se gli operatori piantassero in diversi appartamenti del difficile quartiere La Noce di Palermo dei piccoli semi; di settimana in settimana, gli operatori si prendono cura di questi semini, portando ai ragazzi e alle loro famiglie il necessario dal punto di vista educativo e di crescita umana. Il desiderio di stare insieme, di sostenersi, di attivare questa rete di sostegno reciproco non solo nelle difficoltà ma in tutti i momenti del vivere quotidiano, mettono in circolo quelle quote d’affetto che veramente cambiano le generazioni». 

 

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