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Trasformare la discarica del malessere in un giardino di conforto

Su Covid e vaccini la fede ci dovrebbe spingere a discutere con fraternità e sororità, in tutte le sedi

«Facebook fa male ai bambini e danneggia la democrazia», ha detto la “pentita” Frances Haugen, ex dipendente del social network più celebre, in un’audizione al Congresso Usa nelle settimane scorse, perché è un’azienda che per «profitti astronomici» mette a repentaglio il benessere delle persone. «Facebook fa male alla fraternità e sororità e danneggia le comunità e la chiesa», più modestamente, dico io. È con tristezza e preoccupazione che scrivo. Tristezza perché da qualche settimana leggo astio e acredine in molti post di fratelli e sorelle, anche della stessa comunità, con riferimento particolare al non-dibattito su vaccini e Green Pass. Leggo commenti iperbolici e sopra le righe, sovente con insulti, parole pesanti e giudizi tranchant, da una parte e dall’altra.

Ora, non sarei onesto se dicessi che una parte è uguale all’altra. No, dal mio punto di vista, una parte ha ragione e l’altra parte non ha ragione, ma il punto è che la “ragione” sta prendendo il sopravvento sulla fraternità e sororità che, per un cristiano e una cristiana, dovrebbero avere preminenza assoluta rispetto alle diatribe di questo mondo, anche quelle più importanti e serie. Una parte, però, “vale” l’altra perché la chiamata alla fraternità e sororità viene prima del merito su qualunque altra questione.

Preoccupazione perché vedo ferite che non so se si rimargineranno quando la tempesta sarà passata (e passerà). Che cosa resterà della fraternità e sororità? Che cosa resterà delle chiese, che sono sopravvissute a prove ben più serie?

La chiesa non riesce a trovare un’efficace parola di conforto in questo caos, in questa hybris di sofferenza e dolore. È anche vero, però, che al servizio del caos e della hybris ci sono i social network. Lo dico, consapevole che Facebook è lo strumento di comunicazione più diffuso, che ha aiutato a mantenere tanti contatti che si sarebbero persi altrimenti, che ha donato relazioni a chi ne aveva disperatamente bisogno, che ha permesso a piccole realtà, oneste, laboriose e positive, di farsi conoscere. Sappiamo quanto è stato prezioso nei mesi di isolamento poter trovare parole di conforto, anche parole della chiesa, quando i locali, della chiesa ma non solo, erano chiusi. È come se adesso Facebook ci facesse pagare il conto del bene di cui abbiamo usufruito. Non è la diffusione di bufale che mi preoccupa primariamente oggi, ma la diffusione del malessere, anzi, la “svendita” del malessere in un mare magnum dove si trova altro malessere, che si somma, si moltiplica, cresce fino a diventare un mostro, un leviatano, che però non è “altro da noi”, ma è prodotto in parte mio, tuo, suo, nostro.

Che cosa posso fare io? Posso cercare di trasformare la discarica del malessere in un giardino di conforto. Posso portare una buona parola dove il discorso è tossico. E quando voglio esprimere pubblicamente il malessere? Non propongo “cinture di castità”: c’è modo e modo di esprimere un malessere. Ci si può lamentare “con cura”, facendo attenzione a non radicalizzare il discorso, a mediare sull’uso delle parole.

Su vaccini e Green Pass chi mi ha parlato privatamente conosce le mie posizioni: di persona o al telefono non è mai finita mandandoci reciprocamente a quel paese. Su Facebook non c’è dibattito, ma solo scontro di fazioni, “noi” contro “voi”. Non demonizzo il mezzo, che semplicemente fa quello che altri professionisti della comunicazione già fanno da molto tempo: basti pensare ai talk show televisivi che, con la foglia di fico della par condicio, mantengono audience e introiti pubblicitari invitando fenomeni da baraccone o da parodie che non fanno più ridere. Solo che Facebook lo fa molto meglio e su scala mondiale. Se, come me, decidete di restare in questa pubblica piazza, il mio appello è: siate consapevoli di quanto valgono la fraternità e sororità, di quanto vale la comunità, di cosa perdereste se questa venisse meno.

Nella Bibbia troviamo narrato un grande peccato: rifiutare la vocazione a essere fratelli (e sorelle). È il peccato di Caino, che non è il custode di suo fratello e, per questo, lo uccide (Genesi 4). È il peccato del fratello “sgobbone” del figliol prodigo (Luca 15) che non lo uccide solo perché in cuor suo è già morto. Il padre misericordioso non si mette a litigare con il figlio lavoratore, non cerca di avere ragione, ma si mette in ascolto del suo cuore: «Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato».

Accogliete il pensiero diverso del fratello, della sorella, cercate di capire dove stanno il suo cuore, la sua mente, le sue viscere. Cercate di connettervi a lui, a lei. Siate una cosa sola, come pregava Gesù al Padre. Penso allo spirito che ha portato nel secondo dopo guerra alla nascita del centro ecumenico Agape: un’utopia sedere allo stesso tavolo vincitori e vinti, riconciliare ferite dove possibile, imparare a curarle e farci i conti quando continuano a far male. Allora la sfida era ben più grande di quella odierna, non dimentichiamolo mai. Dio ci ha donato la comunione fraterna: non facciamocela togliere da Facebook.

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