Oltre gli stereotipi
06 ottobre 2021
Una mostra fotografica racconta la realtà di quello che era il campo rom più grande d’Europa; intanto, a Milano il gruppo di aiuto e sostegno ai rom della chiesa valdese compie dieci anni
«Quattro parole: mangiano, rubano, scopano, fanno figli, e poi la cosa più importante: noi li manteniamo». «I rom nascono per delinquere». «I rom di una volta non ci sono più, ora vivono come parassiti». Sono solo alcune delle offensive email ricevute da Andrea Ciprelli, 36 anni, in risposta alla sua bellissima ricerca fotografica sugli “zingari”, avvenuta tra il 2010 e il 2016 a Torino, a Lungo Stura Lazio, in quella che è stata la baraccopoli più grande di Europa, abitata da mille disperati di etnia Romanì. Oggi non c’è più, è stata smantellata, ma a ricordare la sua storia ci sono, nella mostra allo Spazio San Fedele a Milano (fino al 30 ottobre), intitolata Oh violino tzigano, un’ampia scelta di immagini vivide e affascinanti della vita nel campo, scattate da Ciprelli.
«Ci ero entrato da volontario, con l’idea di dare una mano, e ho scoperto la mia vocazione di fotografo, per amore delle persone che vi ho incontrato. Per testimoniare il loro coraggio e la vitalità con cui affrontavano condizioni di vita disumane. Per fare memoria della loro cultura, della loro quotidianità e delle loro feste. Per consegnare a ciascuno, nei ritratti, la dignità del proprio volto, quando invece si tende a stereotipare le loro esistenze, in realtà accomunate più che altro dal disprezzo che li circonda, e dall’emarginazione». Spicca tra le foto il volto di Gheorghita, la cui moglie Flora ha avuto un piede amputato in seguito al morso di un topo. Ciprelli racconta che il quindicenne Vasile, sul punto di sposarsi per seguire la tradizione, una volta entrato con la famiglia in casa popolare, ha abbandonato il progetto e ha proseguito gli studi. C’è la fotografia di un gruppo di donne che danzano nei loro vestiti sgargianti, che sostituiscono con abiti anonimi quando escono dal campo per andare a lavorare come colf.
«Nel lavoro di Ciprelli risalta la disperata energia con la quale questo popolo si oppone al rifiuto sociale di cui è vittima ancora oggi», racconta la curatrice della mostra, Gigliola Foschi. «Gli zingari sono sempre stati vissuti come “diversi”, sia che fossero dipinti romanticamente, come ci evoca ad esempio il successo dal 1934 della canzone Violino tzigano, sia che subissero quell’ostracismo generalizzato che portò, negli anni della canzone, alla promulgazione delle leggi razziali fasciste seguite da deportazione ed eliminazione di Rom e Sinti, a centinaia di migliaia, nei campi di concentramento nazisti». A 80 anni di distanza dal porrajmos, questa condanna all’ esclusione permane, e impedisce di considerare le vicende di ciascuno come particolari e degne di ascolto, di comprensione, di aiuto.
Il desiderio di condividere luoghi e tempi rom è stato anche alla base di un lavoro di indagine di dieci anni svolto a Milano, nei campi di zona Bovisa e Rubattino, da Alice Sophie Sarcinelli, 37 anni, etnologa attualmente in forze al Centro Norbert Elias di Marsiglia, e una delle componenti del Gar, il gruppo di attenzione ai Rom della chiesa valdese di Milano, creato per iniziativa del pastore di allora, Giuseppe Platone, che proprio quest’anno compie dieci anni di attività.
Sarcinelli presenterà il frutto della sua ricerca all’interno degli eventi milanesi di «Bookcity» alle ore 18 di sabato 20 novembre, presso il circolo Arci di Lambrate. Il suo libro, I bambini rom, fuori dall’infanzia. Tra protezione ed esclusione, propone da un lato le esperienze quotidiane che Sarcinelli ha vissuto con le famiglie rom, e dall’altro le osservazioni riguardo al trattamento dei bambini rom da parte delle istituzioni, locali, nazionali ed europee. Spiega Sarcinelli: «Madri e padri rom sono costretti a barcamenarsi, tra la volontà di passare ai figli un’immagine positiva della propria identità culturale, il tentativo di assicurargli una vita degna, e lo sforzo costante di difendersi dalle accuse di cattiva genitorialità».
Come dimostrano queste due esperienze così simili nell’approccio, pur diverse nella tecnica, il fenomeno rom non è da affrontare con i metodi di una vaga filantropia, ma con quelli dell’ascolto e della partecipazione. Per un obiettivo di pura giustizia umana e sociale.