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Per un futuro di comunità aperte e inclusive

150 anni della Mission Populaire francese. A colloquio con il presidente Olivier Brès

La Mission Evangélique Populaire de France (MpeF) sta vivendo un anno di festeggiamenti per i suoi 150 anni, essendo stata fondata nel 1872. Uno degli appuntamenti in cui è stato ricordato l’evento è l’Assemblée du Désert del 5 settembre scorso. Per l’occasione, la predicazione è stata tenuta dal pastore Olivier Brès, presidente della Missione stessa, a cui abbiamo chiesto di rievocarne la nascita.

«La Missione è stata fondata innanzitutto in una prospettiva di evangelizzazione, di conversione della classe operaia, per iniziativa del pastore britannico Robert W. McAll, giunto a Parigi qualche mese dopo la repressione della Comune: egli distribuì opuscoli di evangelizzazione, poi prese ad affittare delle sale per organizzarvi discussioni e attività bibliche, e in seguito anche attività sociali, con il sostegno di un buon numero di pastori francesi: tutto ciò aveva lo scopo di “convertire delle persone”. Se ha avuto un successo rilevante, con varie dozzine di sale a Parigi e nel resto della Francia, fu senz’altro perché ciò corrispondeva a un’attesa di spiritualità a cui la Chiesa cattolica, allora compromessa con le forze più reazionarie, non poteva rispondere; in definitiva, è stato quello il momento in cui i protestanti, pur essendo di molto minoritari, si sono sentiti molto impegnati nel promuovere la Repubblica.

Ma c’è una seconda tappa nella vita della MpeF, quando si stabilisce una relazione tra la Missione e il movimento del Cristianesimo sociale, quando i luoghi di evangelizzazione diventano anche luoghi di iniziativa sociale e politica. Il protestantesimo francese tra fine 800 e la Prima Guerra mondiale dà luogo a varie iniziative per intervenire in ambito sociale (condizioni di lavoro, igiene, lotta contro l’alcolismo) ma anche per dialogare con i partiti di ispirazione socialista. Si elaborò allora una riflessione teologica e pratica intorno a Tommy Fallot e Elie Gounelle, con un lavoro nelle cooperative sotto la spinta di Charles Gide. La Missione vi si trovò impegnata con la creazione delle varie “Fratellanze” e “Solidarietà”, luoghi di educazione popolare, di formazione e promozione sociale per le persone provenienti dagli ambienti operai».

– Vi sono oggi nuovi gruppi di persone che beneficiano dell’azione della Missione? Come si incontrano queste persone?

«La Missione ha conosciuto un periodo piuttosto politicizzato dopo la Seconda Guerra mondiale e la decolonizzazione, ma questo era anche il momento in cui le condizioni sociali della maggioranza dei francesi andavano migliorando: previdenza sociale, allargamento della classe media, accesso ai beni di consumo, progressiva sparizione di una identità di classe popolare a favore della cultura di massa. Dunque era un momento in cui la Missione si dovette interrogare sul proprio ruolo. Tuttavia, dalla fine degli anni ‘70, fece la sua comparsa ciò che chiamiamo la “nuova povertà”: elevata disoccupazione e la “ghettizzazione” degli immigrati: è allora che le “Fraternità” hanno orientato il loro lavoro verso persone in grande difficoltà sociale e verso i migranti: accoglienza e spiegazione dei diritti, alloggio, alfabetizzazione, sostegno scolastico ai bambini, aiuti materiali...».

– Quale rapporto si stabilisce oggi fra predicazione dell’Evangelo e azione sociale?

«Nelle linee di lavoro approvate nel 2018 abbiamo espresso così i nostri obiettivi: “in una società secolarizzata e mercantile, valorizzare la ricerca di senso e la spiritualità invece che nasconderle o confinarle nel privato; in una società individualista e basata sulla concorrenza, proporre modelli di vita comunitaria, inventare forme nuove di solidarietà sociale; in una società di disuguaglianze e di crisi climatica, rispondere all’esigenza di giustizia sia in quanto denuncia sia come proposta”. Si tratta quindi di attivare luoghi e momenti in cui l’azione sociale, le pratiche di cittadinanza e la condivisione spirituale si intreccino per anticipare un avvenire possibile per tutti».

– Nell’ultima Assemblea della Comunione di Chiese protestanti in Europa (Basilea 2018), si è posta la necessità di una “chiesa della diaspora”, ormai una condizione permanente per molte chiese. Il testo su cui ha predicato all’Assemblée du Désert (Atti 15, 36 – 16, 15) ci parla proprio della necessità di ri-orientare la nostra azione di fronte all’imprevisto: quale via, dunque, per le nostre chiese, in una società che pare poter fare a meno di Dio e dell’Evangelo?

«La cultura contemporanea sembra privilegiare una spiritualità di confort individuale, basata sul successo personale: non sono valori cristiani, anche se ci sono correnti della “teologia della prosperità” che li sostengono. Ciò nondimeno altre correnti di pensiero percorrono la società: quelle del bene comune, dei legami da intessere in modi nuovi con gli esseri viventi, relazioni di aiuto reciproco tra le persone. Queste correnti stanno alla base di nuove forme di solidarietà, di reti alternative di scambio, di sperimentazioni sociali e culturali, e sono allo stesso tempo alla ricerca di basi spirituali per fondare la loro azione. È nostra convinzione che si debbano offrire loro degli spazi di condivisione spirituale collettiva, a partire da pratiche di solidarietà comunitaria. La Chiesa delle origini offriva un’alternativa concreta alle discriminazioni e alla segregazione sociale imposte dal mondo romano: a noi tocca immaginare delle nuove comunità aperte e inclusive».

 

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