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Genova, vent'anni fa

Quel luglio 2001 fra l'entusiasmo partecipativo anche di moltissime chiese per dire che un altro mondo era possibile, e la violenza di Stato che rimane una ferita aperta

Chiunque sia stato a Genova nell’infuocato luglio 2001 conserva molti ricordi di quelle giornate. Eppure, avverte la giornalista Annalisa Camilli sul numero extra di Internazionale in edicola, il “vissuto traumatico”, e le diverse provenienze hanno causato una “eterogeneità dei racconti, conflittuali e spesso lacunosi”. Tanto meno una memoria condivisa esiste fra coloro che hanno assistito a quei fatti da lontano, in uno strategico inasprimento della tensione, fra minacce di ordigni esplosi e inesplosi e paventati palloncini di sangue infetto.

Neppure quattro processi hanno costruito una comune coscienza collettiva: come per svariati episodi della storia d’Italia, dal colonialismo agli “anni di piombo”, il Paese dimostra scarsa capacità – volontà? – di elaborare la sua storia. La maggioranza degli italiani non sa che per coprire la “macelleria messicana” della scuola Diaz i vertici della polizia fabbricarono prove false, che nessuno dei responsabili delle violenze a Bolzaneto è finito in carcere, che la carica dei carabinieri in via Tolemaide – le cui conseguenze includono l’uccisione di Carlo Giuliani – era un attacco illegittimo a un corteo autorizzato, al quale i manifestanti risposero per legittima difesa. Il reato di tortura è stato introdotto nel 2017 proprio a seguito della sentenza della Corte europea per i diritti umani che ha condannato l’Italia per i fatti di Genova, tuttavia ancora oggi stiamo aspettando che le forze dell’ordine adottino un codice identificativo su caschi e divise, fra gli ultimi quattro Paesi nell’Unione europea.

A luglio 2001 avevo ventitre anni. Da qualche mese in val Pellice avevamo costituito un “gruppo di affinità” nell’ambito della rete Lilliput, che si proponeva di organizzare forme nonviolente di disturbo al vertice. A Genova ci aspettavano altri giovani della Federazione giovanile evangelica italiana. La Fgei aveva infatti aderito al Genoa Social Forum (Gsf), rete di mille associazioni, partiti, sindacati, chiese, ong e centri sociali, nata con lo scopo di organizzare il controvertice. Anche la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) faceva parte del Gsf: sempre nel 2001 era stata istituita la “Commissione globalizzazione e ambiente”, allo scopo di “contrastare il prevalere degli interessi economici di una minoranza sul diritto alla vita di tutto il resto del creato”. Di questi argomenti si discuteva in congressi e campi studi – prima di Genova il campo Fgei sull’agire politico a Ecumene – e nei campi internazionali di Agape.

Una distesa fitta di tende in un giardino pubblico è la prima fotografia del nostro arrivo a Genova. Poi il concerto di Manu Chao e, il 19 luglio, il corteo festoso e lungimirante dei cinquantamila per i diritti delle persone migranti. Venerdì 20 l’atmosfera cambiò, ma noi ce ne rendemmo conto soltanto nel pomeriggio. Con gli altri gruppi della rete Lilliput eravamo in piazza del Portello: lo scopo era impedire con la nonviolenza il passaggio della polizia attraverso un varco di accesso nella rete metallica che circondava la “zona rossa”. In tutto il giorno non successe praticamente nulla. Non potevamo sapere che a poche centinaia di metri le forze dell’ordine stavano caricando con forza un gruppo di manifestanti con le mani alzate in piazza Manin. Solo diverse ore dopo vedemmo con i nostri occhi le conseguenze della battaglia per le strade intorno a corso Torino. Correvano voci: è morto un manifestante, forse due. Ricordo una notte di grande tensione, stretti nelle tende, come topi, gli elicotteri sopra di noi.

Il 21 venne confermata la grande manifestazione, con pullman da tutta Italia: giovanissimi, famiglie, scout, persone anziane e in carrozzina. Era una giornata luminosa, ci raggiungevano altri amici e io vivevo uno strano ottimismo. “Siamo duecentomila”. Eppure è in quella occasione che ho vissuto la paura più forte: blindati lanciati a tutta velocità sul lungomare Italia, manganellate e urla, il gas CS che fa piangere, vomitare e brucia la pelle, colorandola di rosso e di viola. Quella che uccise Carlo Giuliani era una delle tante pistole puntate sui manifestanti, ma questo lo scoprimmo in seguito. A Genova abbiamo rischiato di lasciare sul terreno molti morti, non solo per le pallottole. Fu una trappola? Oltre alla violenza delle forze di polizia, accertata dai tribunali, ci sono responsabilità nella scarsa capacità del Genoa Social Forum di gestire la presenza in piazza.

Nelle settimane successive nacquero social forum in tutte le città, il movimento sembrò accelerare, per frenare di colpo dopo l’11 settembre. Ma oggi che cosa rimane delle rivendicazioni di allora, della critica approfondita al sistema economico mondiale? Qualcuno sostiene che dopo la repressione vissuta a Genova, almeno in Italia i movimenti siano stati istituzionalizzati nel popolo del “vaffa”, che ha poi indossato giacca e cravatta per andare al potere. La sinistra è sparita e l’antiglobalismo sembra essere patrimonio della destra, che rivendica le identità nazionali come baluardi da difendere. Eppure non è difficile intravedere un fil rouge fra i temi cari alle proteste “per un altro mondo possibile” di vent’anni fa e le priorità nell’agenda di oggi. Tre esempi sono il movimento per il clima, che ha ottenuto una visibilità globale, le lotte per un lavoro dignitoso, e l’attività, sostenuta anche dalle chiese, delle organizzazioni che si occupano di ricerca e soccorso nel Mediterraneo.

 

Foto di Michele Ferraris

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