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Carcere, serve formazione

I gravissimi fatti di S. Maria Capua Vetere mostrano un universo duro in cui occorre applicare la Riforma che nel ‘75 ha reimpostato l’idea di pena

I video pubblicati recentemente di ciò che è accaduto a Santa Maria Capua a Vetere nell’aprile 2020, evidenziano tutta la realtà difficile, complessa del carcere con i suoi risvolti anche drammatici. Sono fatti che vanno condannati perché tradiscono, come ha evidenziato con fermezza la ministra della Giustizia Marta Cantabria, la Costituzione che all’art. 27 «esplicitamente richiama il senso di umanità» che caratterizza le linee guida di ogni Istituto Penitenziario. Questi episodi repressivi violenti oggi più che mai impongono massima attenzione e necessaria risoluzione da parte delle Istituzioni cogliendone le cause per intervenire in maniera competente, focalizzata e definitiva su di esse.

Il carcere è luogo difficile da comprendere nella sua dimensione interna se non si vivono in prima persona le dinamiche, le difficoltà di gestione di situazioni di vita nelle sezioni in grado di esplodere in modo imprevedibile in qualunque momento. Nel carcere tuttavia deve esistere, e di fatto vige, anche il senso del dovere delle Direzioni e del Corpo di Polizia penitenziaria di gestire la sicurezza con l’obbligo della linea trattamentale voluta dall’Ordinamento penitenziario. Non si può dimenticare che il carcere è popolato da persone che vivono forzatamente una condizione anomala: la segregazione e la privazione della libertà. Per l’uomo, la libertà è da considerare al pari di un istinto. Quando questa privazione è forzata – a causa della mancanza di rispetto delle regole scritte definite dalla società – l’uomo condannato vive ogni giorno con frustrazione la ricerca incessante e continua della libertà. La Riforma penitenziaria del ‘75 ha segnato un vero e proprio cambiamento dell’espiazione della pena concedendo al detenuto varie opportunità per riavvicinarsi alla libertà attraverso percorsi di rieducazione interni agli Istituti di Pena, poi esterni attraverso degli specifici benefici di legge.

È importantissimo applicare interamente la normativa penitenziaria, ancora oggi attuale, che invece non trova ancora la giusta applicazione della parte relativa alle misure alternative alla detenzione. Il carcere deve essere l’estrema ratio e non l’unica forma di punizione adottata. Non può non essere tuttavia precisato che questa ricerca naturale della libertà, incide sui comportamenti e sullo stato mentale del recluso in varie prospettive che nella migliore della risoluzione vanno verso un adattamento lucido e funzionale come verso un disagio mentale più o meno pronunciato che procura evidenti e chiari malesseri psicofisici.

La Polizia penitenziaria, nell’esercizio del proprio lavoro, è in prima linea su questa fondamentale missione di contribuire alla rieducazione del detenuto ma le dinamiche del funzionamento di un Istituto penitenziario sono ampie e continuamente condizionate dall’andamento di ciò che accade all’interno di ogni struttura.

Queste dinamiche oscillano continuamente tra sicurezza e controllo, richiedono uno spirito di squadra che deve essere favorito dai vertici, con la guida del direttore e la piena collaborazione, condivisione ed attenzione incessante del personale di polizia penitenziaria. Sicuramente i gravissimi fatti di Santa Maria di Capua a Vetere non rappresentano l’orientamento della linea trattamentale istituzionale del Corpo. Ragione questa per la quale è quanto mai necessario un intervento delle Istituzioni attraverso le competenze dei propri dirigenti per comprendere le cause di simili atti di repressione contrari alla Costituzione. Oltre agli auspicati provvedimenti, non mancherà sicuramente l’ascolto delle richieste degli agenti esposti in prima linea nelle sezioni degli Istituti. Non c’è dubbio che uno degli aspetti sui quali riflettere per concorrere al miglioramento della gestione di un Istituto, è dare maggiore attenzione psicologica all’uomo-agente.

Come riportato, gestire uomini deprivati della libertà è difficile. Occorre per questo una migliore preparazione/formazione del Corpo di Polizia penitenziaria sia sulla comunicazione relazionale sia sulla comprensione e condotta delle dinamiche interpersonali. Non si può non evidenziare che gli agenti nel corso degli anni di attività nelle sezioni, assorbono, per osmosi psicologica, problematiche, angosce, dolori psichici che si sommano ai propri. Ogni agente vivendo nelle sezioni insieme ai detenuti, respira e assorbe continuamente tensioni della privazione della libertà, alle quali tensioni egli pure risponde cercando di offrire il possibile e necessario sostegno al recluso. Dalla parte della prospettiva trattamentale, per migliorare la preparazione dell’agente e il suo stato psicologico, è necessario esercitare maggior controllo dell’umore dell’agente, attraverso un tutoraggio itinerante periodico nelle sezioni, utilizzando il dialogo – vero strumento della relazione umana – per mostrare una vicinanza agli agenti, dando significato al loro ruolo di gestione del detenuto. Solo attraverso un tutoraggio psicologico continuo e competente si può sostenere la missione rieducativa dell’agente come, nel caso, intercettare malesseri e variazioni dell’umore, aspetti psicologici questi che rischiano di vanificare e condizionare il suo ruolo di sostegno al detenuto nelle tante ore che l’agente vive nelle sezioni.

Stare psicologicamente vicino ad un agente non è mai abbastanza per aiutarlo a metabolizzare tutto ciò di cui si fa carico che, occorre non dimenticare, si sommano alle problematiche personali e familiari.

Dal 2018 l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia promuove un progetto pilota di sostegno al ruolo trattamentale dell’agente negli Istituti penali di Civitavecchia e Roma “Regina Coeli”. Progetto approvato e favorito dal Provveditorato della Regione Lazio. L’Ucebi, valorizzando l’esperienza fatta in primis dalla chiesa battista di Civitavecchia, ha intercettato già da anni la necessità di un tipo di sostegno continuo all’agente attraverso uno sportello itinerante che promuova la presenza dello psicologo nel posto di lavoro dell’agente, nelle sezioni degli Istituti. Lo psicologo attraverso la sua presenza, e dove opportuno il dialogo, mostra una reale attenzione a sostenerlo, coadiuvarlo, incoraggiarlo nella sua delicata missione di gestione del detenuto. A Regina Coeli in particolare una simile continua presenza è stata offerta anche durante il lungo periodo di lockdown di emergenza sanitaria dove le dinamiche negli Istituti si presentavano ancora più complesse. Auspichiamo che questo progetto pilota possa essere riconosciuto anche da altre Regioni d’Italia, ed esteso con una simile modalità psicologica itinerante nelle sezioni degli Istituti, così da sostenere e valorizzare la figura trattamentale dell’agente di Polizia penitenziaria e renderlo più preparato nello svolgimento del proprio difficile lavoro sociale.

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