Il calcio è un gioco di questa terra
20 aprile 2021
Il progetto di un torneo elitario ricorda la fuga su un pianeta lontano
Ricordate la gioia del mondo sportivo italiano quando il Leicester allenato da Claudio Ranieri vinse, per la prima e unica volta, la Premier League nel 2016? Potrebbe non essere più nemmeno un’ipotesi teorica: non penso solo al Leicester ma alle squadre come Verona, Sampdoria, Cagliari, che il campionato l’hanno vinto una volta. Se andasse in porto il progetto di “Superlega” voluto dal Real Madrid e da alcune squadre inglesi, a cui si sono unite Juventus, Inter e Milan, ciò che resterebbe della Premier League o della Serie A sarebbero campionati declassati, seppur al momento pare restare l’intenzione di tali squadre di parteciparvi rinunciando invece alle coppe europee, ma verrebbero a mancare sicuramente gli interpreti migliori da preservare per la nuova competizione. Sarebbe forse più facile vincere, per una squadra meno “blasonata”, ma la soddisfazione non sarebbe la stessa. Il bello del calcio, come di tutti gli sport, individuali o di squadra, è che ogni tanto vinca chi non è normalmente più forte.
Non facciamone un discorso morale, per carità: le proprietà delle squadre di calcio (i vecchi “patròn” di una volta o le finanziarie di tempi più recenti, magari dislocate oltreoceano) non sono associazioni di beneficienza e i loro presidenti non sono mai stati boy scout. Restiamo al piano sportivo, non politico: le squadre che hanno preso questa dirompente iniziativa ritengono (a buon diritto) di essere migliori, quindi vincenti, quindi in grado di offrire il migliore spettacolo. È vero, ma qui vanno fatte due considerazioni.
La prima: l’idea di un calcio-spettacolo viene concettualmente da più lontano: è stata preparata da anni di calcio televisivo, di progressiva riduzione del pubblico allo stadio (stadi obsoleti, violenza degli ultras: la pandemia ha infine dato il colpo di grazia); ne è nato un calcio che più che all’intensità della partita guarda al particolare, al dettaglio, con 25 telecamere, replay in rapida successione, ricerca delle frasi (non sempre oxfordiane) sulle labbra dei giocatori. Particolari interessanti, ma che, analizzando, scomponendo i gesti fisici del gioco, ne anestetizzano l’emozione. Interessante per uno spettatore tecnico, ma poco a che vedere con la passione. E il calcio è passione, non spettacolo. Il tifoso vuole che la sua squadra vinca, anche giocando male, del “bel gioco” importa poco. A volte – inevitabile che qualche giornale ricorresse al paragone biblico più facile, e infatti è stato fatto – Davide batte Golia; e per Davide battere Golia significa giocare al 110% e sperare che il più forte giochi solo all’80%. Poi deve sperare in un po’ di fortuna – che in ambiente sportivo viene definita con altro termine.
Seconda considerazione: restringere la competizione a un gruppo ristretto di squadre (sempre e stesse) provoca noia nei protagonisti stessi. Chiunque abbia respirato un po’ di aria (di per sé un tantino soffocante e graveolenta) di uno spogliatoio, invece che i “loft” delle finanziarie, sa che a trovarsi sempre di fronte gli stessi avversari si cronicizzano piccole e grandi rivalità, gelosie, personalismi, ripicche: c’è bisogno di cambiare sempre aria, non solo per disperdere i residui di sudore. Non solo: questo campionato “ingessato”, sempre uguale (chi vincerà: A, B o C?) assomiglia da vicino al mondo triste della politica attuale, il quale si basa su un criterio di redditività preso a prestito dalla finanza. Mai dire una parola che rischia di far diminuire il consenso; mai un’innovazione che possa pregiudicare una candidatura; dire sempre ciò che la gente vuole sentirsi dire. Emotivamente è la morte civile: vogliamo portarla anche nello sport più amato al mondo?
E dire che le cose utili da fare sarebbero parecchie: proprio la Juventus ha avviato la partecipazione di una sua seconda squadra al campionato di serie C, in modo da far crescere i ragazzi più promettenti, come si fa con ottimi risultati in Spagna, Germania e altri Paesi. Giusto. Si devono poi rendere disponibili più strutture per lo sport diffuso a livello popolare, ora fiaccato anche dal Covid. Si deve ricominciare a insegnare la tecnica di base, giocare meno partite e allenarsi di più, per imparare e per stressare meno i tendini e i legamenti, che poi si rompono. Servono allenatori che, individuato un ragazzo di talento nelle squadre giovanili o in categorie “minori”, sappiano farlo crescere e perfezionarsi con il divertimento e l’applicazione (educazione utile, tra l’altro, per ogni aspetto della vita). Serve che il lusso, i protagonismi e i circoli elitari non spengano la passione del ragazzino che palleggia contro il muro e che estende con gli amici, magari cercando di mandare un calcio di punizione nella porta della cantina superando una barriera fatta di siepe e cespugli.
Servirebbe ancora una cosa, ben più urgente della creazione di élite: serve superare quell’élite “di massa”, ora ben viva, costituita dal fatto che lo sport professionistico in Italia è cosa solo degli uomini, o quasi. Lo sport femminile è ancora considerato un passatempo. Un non-senso avvilente, una vergogna. Ecco, ci sono cose più urgenti da fare. Anziché esplorare l’ignoto e trasferirsi su un pianeta tutto loro, i primi attori del calcio trovino piacere a farsi sfidare dal piccolo Davide su questa terra, sul fango dei campetti di periferia dove ha imparato a tirar calci a un pallone. Davide vincerà una volta su dieci, su venti, ma almeno ci avrà provato: ma volete mettere la soddisfazione?