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Natale, tempo di tregua e di riflessione

Era il 24 dicembre del 1914 quando i soldati in conflitto decisero una tregua spontanea per celebrare il Natale in trincea

«Nel dicembre 1914 la guerra scoppiata nell’estate precedente in Europa era ormai diventata mondiale: si combatteva in Belgio e Francia, in Serbia e dal Mar Baltico ai Carpazi; da poco era entrato nel conflitto a fianco dell’Impero tedesco e dell’Austria-Ungheria anche l’Impero Ottomano, aprendo così fronti nel Caucaso, in Palestina ed in Iraq. Si combatteva nelle colonie e nei possedimenti tedeschi in Africa, Asia e Oceania, coinvolgendo in tal modo anche Giappone e Portogallo. Le operazioni belliche cominciarono con i tratti di una guerra di movimento ma l’arrivo dell’inverno vide scendere una stasi sui campi di battaglia, come la prima neve». Così scriveva nel 2014 Pierpolo Silli su La Voce isontina a cento anni di distanza da un evento straordinario, oggi ricordato sul sito di Rai Cultura.

«Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale scoppia improvvisamente la pace».

Una pace spontanea nata dal cuore dei soldati e non decisa dalle gerarchie militari: «I tedeschi – si legge – addobbano gli alberi con le candeline e intonano la canzone “Stille Nacht”. Gli inglesi, che ignorano le tradizioni tedesche legate al Natale, riconoscono però quel motivo come “Silent Night”. E i canti si uniscono in un’unica voce. Questo miracolo passerà alla storia come la “tregua di Natale”.

L’iniziativa lontana e spontanea, ricorda oggi lanciata dalle chiese luterane tedesche che hanno invitato i propri fedeli a intonare dai balconi delle proprie case il noto canto natalizio comune in segno di condivisione, di solidarietà per chi è solo, per chi lavora negli ospedali, per chi soffre per la malattia e dunque come segno di vicinanza e di speranza per il futuro.

Il Natale è certamente un momento di festa, ma dev’essere vissuto nella sua dimensione più spirituale e profonda.

Una visione cara al teologo luterano (icona del nostro tempo) morto per contrastare l’ingiustizia e la brutalità inumana del nazismo, il pastore Dietrich Bonhoeffer.

Era il 17 dicembre 1943 (questa volta in piena Seconda guerra mondiale e due anni prima di essere impiccato per ordine di Hitler) quando dal carcere berlinese di Tegel, Bonhoeffer scrive ai genitori: «Molti di questa casa (il carcere) celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome».

Una lettera pregna di senso per una ricorrenza spesso vissuta con leggerezza, come ammoniva allora Bonhoeffer.

Oggi ci ritroviamo alla vigilia di un altro Natale, anch’esso diverso, per tate persone sofferto e che vivremo con responsabilità e buon senso nelle nostre case.

Casa, termine curiosamente utilizzato da Bonhoffer per definire la struttura carceraria nella quale era detenuto.

«La casa riproduce ogni aspetto della vita. In cantina ci sono i nostri lati oscuri, quelli che non vogliamo affrontare, le presenze ingombranti che non ci rendono liberi. In soffitta i ricordi dimenticati, quelli della famiglia allargata. La sala da pranzo è la nostra vita sociale. Il bagno il luogo in cui ci purifichiamo. La cucina è ciò che ci nutre o, al contrario, ci avvelena. La camera è il luogo dell’intimità e del riposo, in cui possiamo metterci a nudo senza paura», affermava quest’estate sul settimanale cattolico Famiglia Cristiana la pastora battista Lidia Maggi. E proseguiva, «è inevitabile, quindi, ripartire da qui (dalla casa, ndr) per mettere a frutto quello che l’esperienza della pandemia ci sta insegnando». Interpellata ieri alla viglia del Natale dalla penna di Barbara Battaglia dell’Agenzia stampa Nev la pastora Maggi ha ribadito concetti importanti, affermando che oggi siamo chiamati a «fare i conti (oltre che con la nostra casa, ndr) con la famiglia, perché è lì che impariamo la grammatica delle relazioni che ci permettono di stare al mondo». Da oggi, dunque, per contrastare il diffondersi di un virus che ha già causato troppe vittime, staremo nuovamente nelle nostre case, per chi ha la fortuna di poterne avere una.

Battaglia nell’intervista interroga insistentemente la pastora battista (e malgrado i tempi bui e difficili) le chiede di inviare un messaggio, un consiglio da donare a noi tutti: «Non è semplice augurare qualcosa» risponde Maggi, ma certamente «imparare a cambiare il nostro sguardo sul mondo e su di noi per rimettersi in cammino verso il nuovo che viene» sarebbe già un buon inizio.

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