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Vaccini e virus: sfida mortale

L’immunologo Alberto Mantovani ci richiama al senso di responsabilità, ai suoi diversi livelli, per fare un fronte comune contro il Covid. La ricerca può giovarsi della concorrenza

Ho conosciuto lo scienziato immunologo Alberto Mantovani in occasione degli incontri biblici periodici in casa sua a Milano. Pur non essendo credente, è interessato e partecipe del nostro mondo ecclesiastico, grazie anche a sua moglie Nicla impegnata nella vita della comunità valdese di Milano. Ho ascoltato, in queste settimane, alcuni interventi di Mantovani in tv e ho letto dei suoi articoli su quotidiani. È il ricercatore italiano più citato nella letteratura scientifica internazionale. Specializzatosi, dopo la laurea in Medicina e chirurgia, in oncologia, ha lavorato in Inghilterra e negli Usa. Dal 2005 è direttore scientifico di Humanitas a Milano e professore emerito della Humanitas University. Ha indubbie capacità divulgative come i suoi libri dimostrano. Il suo ultimo lavoro in ordine di tempo: Il fuoco interiore. Il sistema immunitario e l’origine delle malattie (2020). Ecco la sintesi del nostro incontro.

– La super concentrazione mediatica sul Covid proietta un cono d’ombra su altre gravi patologie…

«Ricordo che in aprile con il direttore dell’Istituto nazionale Tumori Giovanni Apolone avevamo pubblicamente espresso la nostra forte preoccupazione per il drastico calo di attenzione sulla cura del cancro. Nei primi mesi di quest’anno si stima che nel nostro Paese si siano fatti 1.400.000 screening in meno, che si traduce in mancate diagnosi sui vari tipi di cancro. Il rischio è altissimo».

– Come orientarci?

«Ci sono tre livelli da tener presente: il primo è il comportamento individuale. Conosco colleghi che non hanno fatto le vacanze per cercare di recuperare gli screening non fatti, in primo luogo c’è l’impegno individuale. C’è poi il livello organizzativo delle istituzioni sanitarie. Un solo esempio: Humanitas ha costruito un Emergency Hospital Covid-19 in otto settimane. Ci sono anche altri esempi lodevoli come il “Gemelli” a Roma. Il terzo livello è quello organizzativo che compete a chi ha le responsabilità nazionali o regionali della salute pubblica. E qui si tratta di scelte politiche che, su questa materia, non sono rinviabili».

– In molte parti d’Europa, Italia compresa, si è andati in piazza per protestare contro l’attuale “dittatura sanitaria”. Si arriverà al vaccino obbligatorio?

«A quei dimostranti vorrei ricordare una parola di un grande Maestro vissuto duemila anni fa: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. L’obbligo vaccinale per alcuni vaccini dell’infanzia è anche un segnale che va al di là dell’obbligo stesso, perché lo Stato assume una posizione chiara e lancia un messaggio valoriale che va al di là della cura individuale. La parola vaccino si coniuga con due altre: responsabilità e solidarietà. Quando i miei nipoti (otto, ndr) vengono vaccinati è come se allacciassero la cintura di sicurezza, un gesto obbligatorio in auto. Ma quel gesto obbligato può salvarti la vita. Credo che un dibattito sull’obbligo di eventuali vaccini anti-Covid sia prematuro, non ci sono i dati su cui ragionare».

– Per la seconda ondata pandemica non ci siamo adeguatamente preparati; è un problema culturale?

«Io vivo questa cosa con infinita tristezza: ad aprile il virus ci aveva messo al tappeto, poi ci siamo risollevati, a fine primavera eravamo il miglior Paese in Europa e forse nel mondo. Recentemente ero relatore in una conferenza a studenti in medicina organizzata da Andrea Biondi, dell’Università Bicocca, in cui è intervenuto Anthony Fauci. Quest’ultimo ha illustrato la curva dell’Italia della prima ondata come esemplare. Se ci fossimo comportati come hanno fatto alcune democrazie orientali come il Giappone o la Corea del Sud – allora avevamo le carte in regola per farlo – la situazione non sarebbe precipitata. A trovarci impreparati hanno concorso vari fattori a partire dalla miriade di messaggi assurdi e privi di basi scientifiche affidabili. È stato detto che il Covid19 non era altro che una sorta d’influenza, e così non ci siamo preparati per la prima ondata. Poi, in tutte le salse, è stato detto che la pandemia con l’estate era finita, che il virus era cambiato, si è anche parlato dei passaporti di immunità».

– Chi interviene su questa materia di vita o di morte che criteri dovrebbe adottare?

«Nella mia comunicazione scientifica cerco di attenermi a tre “R”: La prima R è il rispetto dei dati certificati, disponibili e condivisibili dalla comunità scientifica internazionale, i dati fantasma sono quelli che nessuno può verificare. Nella nostra ricerca i dati significativi che scopriamo, prima che vengano pubblicati su autorevoli riviste scientifiche, li mettiamo a disposizione (open access) della comunità scientifica. Questa formidabile condivisione dei dati sensibili oggi è possibile grazie alla tecnologia che permette anche un confronto rapido. La seconda R è il rispetto delle competenze. Io non analizzo le curve dei contagi: non è la mia materia, questo lo si può chiedere per esempio al fisico italo-americano Alessandro Vespignani che studia queste dinamiche. Se parlo del Covid19 è perché, come immunologo, debbo conoscere il nemico. A questo si collega la terza R, che è la responsabilità sociale. Se dò messaggi, magari tranquillizzanti ma scientificamente errati, si crea confusione: ci saranno persone che non metteranno più la mascherina, non rispetteranno il distanziamento sociale, spesso gli atteggiamenti irresponsabili sono conseguenze di informazioni inaffidabili».

– Una volta che la pandemia finirà, il dopo sarà come il prima?

«Fare previsioni non mi compete: quello che trovo straordinariamente positivo è il livello di comunicazione degli sviluppi della ricerca scientifica in ogni parte del globo. Il virus ha procurato una ferita umana profonda ma ha costretto la scienza a correre. Una parte del mio tempo lo passo a confrontarmi con medici e scienziati di tutto il mondo».

– Siamo tutti in attesa del nuovo vaccino.

«Non dimentichiamo che stiamo vivendo una situazione di emergenza: nel passato ci volevano dagli otto ai dodici anni per arrivare a realizzare un vaccino affidabile, se fosse ancora così oggi con il Covid-19 sarebbe una catastrofe. Sei vaccini sono nelle fasi finali di sperimentazione, è iniziata la fase finale. I dati delle due fasi precedenti sono incoraggianti, quelli dell’ultima fase sono ancora in elaborazione. Ho fiducia nella competenza e indipendenza delle istituzioni pubbliche che esaminano i nuovi vaccini (Aifa per l’Italia, Ema per l’Europa, Food and drugs per gli Usa).

– Ma non ci sono troppi vaccini?

«È salutare che ci siano più vaccini, per vari motivi. Il monopolio non è mai una bella cosa. Non dimentichiamo che il vaccino per la polio fa sì che oggi in Africa non ci sia più poliomielite, arriverà il giorno che non avremo più bisogno di vaccinarci contro la polio. Ma se il mondo sarà liberato dalla polio è perché abbiamo usato due vaccini che hanno caratteristiche diverse e complementari, e un terzo a cui si sta lavorando. L’epidemia mi ha ricordato il detto socratico “So di non sapere”; ci sono ancora molte cose da scoprire e sperimentare, la scienza continuerà il suo prezioso lavoro per la vita di tutti e di ognuno».

 

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