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Essere uomini il 25 novembre

Non cessa la violenza sulle donne. La pandemia, ma anche alcune risposte a essa, amplificano accenti guerreschi, che dovremmo abbandonare

Ormai è un’acquisizione che nessuno può più permettersi di negare: gli uomini, da sempre, esercitano violenza sulle donne. Si tratta di una violenza pervasiva, che non risparmia alcuno degli ambiti della vita, personale, sociale, culturale, ecc. La violenza fisica e sessuale nei confronti delle donne viene nominata spesso (anche se non sempre viene sottolineato che viene perpetrata per lo più in famiglia), ma non meno importante è la violenza psicologica (per esempio la sottile e sistematica svalutazione della donna e delle sue capacità), quella economica (vedi gli stipendi più bassi delle donne a parità di mansione), e molte altre forme. È importante non ridurre la violenza sulle donne a una serie di azioni compiute da singoli uomini e riconoscerne il carattere sistemico.

Certo, il nostro Paese non brilla per la sua capacità di affrontare il problema. Di recente l’Italia è stata condannata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per ostacolo all’accesso alla giustizia da parte delle donne vittime di violenza, per lo scarso finanziamento dei Centri antiviolenza e per l’insufficiente azione di prevenzione. E la pandemia non ha fatto che aggravare la situazione. La primavera scorsa, quando nidi, scuole materne ed elementari sono state chiuse per due mesi, l’enorme lavoro di cura e sostegno didattico di figli e figlie è ricaduto principalmente sulle mamme. Nelle famiglie che si sono ritrovate a convivere forzatamente 24 ore su 24 la violenza maschile, spesso latente, si è manifestata in modo nettamente superiore alla norma (già preoccupante di per sé): da marzo a giugno 2020 le telefonate al 1522 (numero di sostegno alle vittime di violenza e stalking) sono state 15.000, più del doppio rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. 

Ma anche nella risposta alla pandemia si vede la violenza maschile all’opera: il Comitato tecnico-scientifico nazionale all’inizio era composto da 20 uomini (e zero donne), i quali hanno naturalmente adottato il proprio approccio maschile, poco sensibile a ciò che le donne subiscono sistematicamente (solo in seguito alle proteste è stata aggiunta una piccola rappresentanza femminile). Il linguaggio pubblico sulla pandemia è pieno di metafore belliche (la guerra al Coronavirus viene combattuta dai medici in prima linea, il vaccino ci porterà alla vittoriasconfiggendo il virus, ecc.) e poiché la guerra è la massima forma di violenza maschile (i combattenti sono di norma uomini, e tra le altre armi usano anche lo stupro) attingere a quel linguaggio rivela e rafforza un approccio violento al problema. Non stupisce quindi di trovare nella lotta alla pandemia una certa violenza nei toni e anche nei modi in cui a volte vengono fate applicare le misure contenitive.

È tipicamente maschile anche il ridurre l’essere umano a una mente, dotata sì di un corpo, che dev’essere oggetto delle cure mediche ma che non viene riconosciuto come una risorsa (vedi la chiusura di palestre, teatri, centri di danza e il sospetto con cui viene vista l’attività fisica all’aperto, dimenticando quanto sia d’aiuto al rafforzamento del sistema immunitario), mentre il ruolo della psiche viene quasi del tutto taciuto e le relazioni umane sono considerate secondarie, temporaneamente sacrificabili alla sconfitta del nemico. Questo approccio nega esplicitamente tutte quelle dimensioni dell’esistenza umana che sono tradizionalmente considerate femminili emarginando le donne (come è normale in guerra) e rinchiudendo gli uomini nello stereotipo dell’uomo razionale ed autosufficiente. 

Da uomo, vorrei invitare gli altri uomini a fare di questo 25 novembre l’occasione per mettere in discussione il modello maschile che ci è stato tramandato, ad approfittare di questa situazione che stravolge la nostra vita per liberarci di quel modo di essere e di affrontare la vita che è limitante per noi e oppressivo per le donne. Cogliamo l’occasione del maggior tempo in casa per migliorare la nostra capacità di prenderci cura: della casa, delle persone con cui viviamo, delle relazioni famigliari. Cogliamo i limiti a frequentare lo spazio esterno, sociale, lavorativo, che ci è stato insegnato essere il nostro, per famigliarizzarci con quello interno, domestico, interiore e scoprire che anche in esso possiamo trovare parti importanti di noi. Facciamo di questa pandemia l’occasione per ripensare alle nostre relazioni con le donne, per affrontare i conflitti, che sono parte integrante del nostro essere relazionale e liberare le nostre relazioni dalla violenza, che troppo spesso le condiziona e che, se riconosciuta, può essere eliminata. Un compito impegnativo, che non possiamo svolgere da soli; dobbiamo guardarci intorno e trovare altri uomini con cui sostenersi reciprocamente, e riconoscere nelle donne un aiuto, e non un ostacolo, al nostro cambiamento. È impegnativo ma è possibile – ed è necessario.

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