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Amare il prossimo come noi stessi

Un giorno una parola – commento a Levitico 19, 18

Amerai il tuo prossimo come te stesso 
Levitico 19, 18

L’amor fraterno rimanga tra di voi. Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli
Ebrei 13, 1-2

Questo comandamento non si ferma a comandare, ma aggiunge un particolare, un metro di confronto: “come te stesso”. Ciò risponde a una domanda prima ancora che possa essere formulata. La domanda sarebbe: «sì, ma come, ma quanto, fino a che punto?». Nel brano riportato in Luca 10, 25ss, di fronte a questo comandamento, il dottore della legge volle saperne di più e domandò: «chi è il mio prossimo?». Era una persona istruita nella Scrittura, conosceva l’ebraico e sapeva che la parola “prossimo” significa amico, compagno, concittadino o connazionale e, persino, l’altro, chiunque ti sta di fronte. Domandare, dunque, chi è il mio prossimo non significava altro che ingaggiare una discussione filologica senza fine per eludere la questione, per non farne niente del comandamento. 

Sembra, invece, che il comandamento nella sua forma originale voglia parare ogni discorso capzioso fatto per darsi alla fuga con la scusa di volerne sapere di più, di approfondire la questione. Con quel “come te stesso” il comandamento anticipa la risposta a questi tentativi di sfuggire. Di fronte a quel “come te stesso” non puoi dire: non ne rimane abbastanza per me, che cosa darò ai miei figli, non c’è spazio abbastanza nella mia casa. “Come te stesso” spazza via ogni egoismo, ogni calcolo, ogni tentativo di accontentarsi di un gesto superficiale di carità spicciola.

Il comandamento ti invita a guardare l’altro, il prossimo, come se nell’altro ci fossi tu stesso. La sua fame è la tua fame, il suo bisogno di accoglienza e sicurezza è quello stesso per cui vivi e lotti. Quando vediamo nell’altro l’immagine di quel che siamo noi, sapremo come amare il prossimo, cioè come noi stessi.

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