Leggere con gli occhi della fede le inquietudini di oggi
21 luglio 2020
«La Civiltà Cattolica», da 170 anni alla scoperta di linguaggi sempre nuovi. Intervista con il direttore, padre Antonio Spadaro
Una veste sobria, amichevole eppure autorevole fin dalla grafica. La Civiltà Cattolica, dal 1850 testata della Compagnia di Gesù, è entrata nel 171° anno di vita. Cerchiamo di conoscerla con il direttore, padre Antonio Spadaro, ricordando che in un suo messaggio papa Bergoglio ha sottolineato il compito di «fare discernimento sui linguaggi» e di «accettare la sfida delle inquietudini straripanti del tempo presente». Che cosa significa?
«La sfida che avvertiamo oggi è proprio quella delle inquietudini: in questo tempo così complesso c’è bisogno non di risposte preconfezionate, ma di un discernimento che “accompagni il tempo”. La rivista non ha idee fisse, né vuole dare interpretazioni ideologiche della realtà; vuole accompagnare il tempo cogliendone le sfide e proponendo spunti di riflessione. Così cerchiamo di fare ascoltare le voci che ci mandano i corrispondenti di vari Paesi, dagli Usa al Venezuela alla Cina alla Russia. Allo stesso tempo cerchiamo di accogliere anche i linguaggi di oggi: oltre alla rivista cartacea, con articoli anche di 14-15 pagine, ci sono il suo sito, i social. La comunicazione è e deve essere contemporanea, e l’ambito digitale è fondamentale per ogni scambio culturale; l’ambiente digitale non pone limiti di spazio né richiede una assoluta simultaneità di lettura, i pensieri si condividono in rete e una rivista di cultura deve esservi presente. Nel 2012 pubblicai un libro intitolato Cyberteologia, che conteneva riflessioni avviate in realtà fin dalla fine anni ‘90, e mi chiedevo che impatto avesse la rete sul modo di pensare la fede: la rete cambia il nostro modo di pensare, e se la teologia è pensare la fede, è impossibile non pensare a come la logica della rete stia cambiando il modo di pensare Dio, la fede, la Chiesa, i sacramenti, perfino l’ecumenismo».
– In che rapporto è la rivista con le istituzioni di formazione e Università cattoliche? E quanto conta essere pubblicata in cinque lingue?
«Per noi la cosa più importante è dare uno sguardo alla realtà del mondo (quindi alla politica, all’arte, la letteratura, la scienza) con gli occhi della fede, e in questo senso è per noi molto importante avere rapporti con le istituzioni di ricerca, in particolare quelle legate alla Compagnia di Gesù: per questo alcuni dei nostri autori provengono dal mondo dell’accademia, pur scrivendo in modo tale da essere compresi anche da persone di cultura media. Un rapporto particolare l’abbiamo con la Georgetown University [fondata nel 1789 a Washington DC dal padre gesuita John Carroll, è la più antica università cattolica degli Usa, ndr]: faccio parte del board of directors e presso di noi vi è un suo ufficio di rappresentanza. Insieme abbiamo organizzato dei webinar di portata globale, per esempio sui diritti di cittadinanza. Il fatto di uscire in 5 lingue (e altre si aggiungeranno) è importante, perché non si tratta affatto di tradurre in lingue estere una rivista pensata in italiano: al contrario, riceviamo contributi pensati altrove e in altre lingue. Così l’articolo che arriva in spagnolo viene tradotto per l’edizione italiana, ma anche per quella in cinese, ultima nata nell’aprile scorso, in inglese e francese. Questo permette di creare “ponti di dialogo” tra diverse aree, uno scambio di grande apertura».
– Il cinema è stato sempre all’attenzione della vostra rivista: come mai?
«Questa attenzione risale all’opera di padre Enrico Baragli (1908-2001) che per tantissimi anni ha lavorato al cinema e alle comunicazioni sociali. Poi è toccato a padre Virgilio Fantuzzi, scomparso nel settembre scorso, persona creativa, capace di fare critica cinematografica non costruendo dei saggi, ma raccontando i film: un grande narratore che “raccontava” ciò che vedeva, in dialogo con i suoi lettori. È questa una vera e propria vocazione a leggere i nuovi linguaggi e a riconoscere le forme artistiche, non usando strumenti tecnici da addetti ai lavori, ma usando la narrazione come metodo. Ciò vale anche per la letteratura; e per l’anniversario di quest’anno ho voluto ripristinare una rubrica che era attiva nel 1850: la sezione “amena”, narrativa: non solo articoli di riflessione, quindi, ma anche narrazioni, poesie e poemetti per comunicare al lettore una densità di messaggio che a volte il testo più “tecnico” non riesce a cogliere».
– Lei stesso ha anche una lunga pratica di critica letteraria, all’origine di diversi libri, dedicati in particolare alla letteratura americana, in uno dei quali parla anche dell’«esigenza di una teologia letteraria»: è sempre vero?
«La “teologia letteraria” è fondamentale per leggere la realtà. La narrazione è un luogo in cui si fa esperienza dell’umano, a volte leggere un romanzo permette di fare esperienze che mai una persona potrebbe realizzare nella propria vita. La letteratura è un serbatoio di esperienza, e leggere teologicamente un racconto è come entrare nella profondità del tessuto dell’esperienza umana. La parola di una poesia o di una narrazione va al di là dell’intenzione stessa dell’autore, viene fuori quando si scrive, il pensiero viene “alla penna”, non è pensato a priori. C’è una dimensione profetica, intrinseca al gesto letterario, di grande valore. Inoltre la parola poetica è molto densa: per il teologo Karl Rahner è una “parola-conchiglia”, accostandola all’orecchio si sentono delle risonanze: più che fornire definizioni, essa “apre” ai significati dell’esistenza. Tutto ciò mi ha sempre affascinato e di questo ho iniziato a scrivere per La Civiltà Cattolica».
– La Civiltà Cattolica di fronte alla pandemia e alle sue conseguenze, ha denunciato l’uso strumentale della Bibbia per spiegare il Covid come conseguenza dei nostri peccati: che linea avete seguito?
«Abbiamo cercato di avere più punti di vista: da quello biblico e teologico, cercando di smontare i preconcetti e le visioni strumentali e ideologiche, a quelli filosofico, psicologico, didattico, non escludendo quello medico, per cercare di interpretare un fenomeno di impatto fortissimo sulla nostra vita e sul nostro modo di intendere i rapporti, che ci ha fatto vedere come l’umanità sia “una”, al di là di regimi politici, barriere e confini. In questo senso papa Francesco ha affrontato di petto la situazione: abituato a stare in mezzo alla gente, si è ritrovato improvvisamente isolato, cogliendo questa sfida dell’isolamento e rilanciandola come momento per ripensare insieme un futuro migliore».