Regeni, l’Egitto passa all’attacco
08 luglio 2020
L’ultimo incontro tra le procure di Roma e del Cairo ha segnato un nuovo atteggiamento da parte del regime di Abdel Fattah al-Sisi. Un nuovo grave passo indietro a cui sarà necessario reagire
La strategia egiziana sulla vicenda di Giulio Regeni è cambiata. È questa l’unica certezza dopo il fallimentare incontro tra le procure di Roma e del Cairo dello scorso 2 luglio. Durante la videoconferenza, infatti, non solo i magistrati egiziani hanno evitato ancora una volta di rispondere alle richieste dei colleghi italiani, ma hanno anche avanzato alcune richieste investigative sulle attività del ricercatore friulano. Paola Deffendi e Claudio Regeni, genitori di Giulio, hanno parlato di «istanza offensiva e provocatoria», criticando duramente la linea della «condiscendenza» difesa da mesi dal governo italiano e invitando ancora una volta a ritirare l’ambasciatore, Giampaolo Cantini.
Amaro anche il commento di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, secondo cui «per quattro anni si è usata una tattica dilatoria, perdendo tempo, mantenendo cordialità, lasciando passare mesi, da ultimo anche la scusa degli avvicendamenti dei procuratori, a Roma e al Cairo, ma oggi la strategia è cambiata perché si è passati dall’attesa all’attacco».
Il nuovo atteggiamento dell’Egitto è diventato evidente durante l’ultimo incontro, quello del 2 luglio: mentre la procura di Roma ha continuato a chiedere risposte sulla rogatoria internazionale per cinque funzionari egiziani iscritti nel registro degli indagati, necessaria per far proseguire le indagini e per arrivare eventualmente al processo, dall’altra parte Il Cairo ha chiesto agli investigatori italiani di fornire informazioni su che cosa facesse Giulio Regeni in Egitto, attività tuttavia già note e collegate a un progetto di ricerca per l’Università di Cambridge, che finora è sempre rimasta ai margini della vicenda. «Dopo mesi e mesi di stallo - sottolinea dunque Noury - siamo passati dal nulla di fatto al peggioramento della situazione».
Come accennato, la richiesta che arriva dalla famiglia Regeni è ancora una volta quella di richiamare l’ambasciatore, così da marcare una discontinuità con gli ultimi tre anni. Eppure, tanto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, quanto il sottosegretario Manlio Di Stefano hanno ribadito che «la presenza del nostro ambasciatore è fondamentale» e che «arriveranno progressi a breve» perché «la pressione è già massima e la stiamo esercitando con ogni mezzo e a ogni livello, ma per farlo occorre esserci e farsi sentire». La sensazione, per contro, è che questa strategia, che finora non ha pagato, non sia destinata a cambiare le cose.
Il punto, tuttavia, è che oggi per l’agenda di politica estera del nostro Paese la ricerca di verità e giustizia per Giulio Regeni non sia così prioritaria nei rapporti con Il Cairo, con cui ci sono numerosi livelli di cooperazione. Primo su tutti, quello militare. «C’è la questione delle forniture di due fregate alla marina egiziana. Da diverse parti si sollevano questioni di opportunità e contrasto alla legge italiana. Quelle forniture vanno sospese», afferma il portavoce di Amnesty.
A proposito della richiesta di richiamare l’ambasciatore, Riccardo Noury ritiene che non si possa far finta di nulla, per due motivi. «Il primo è per dargli istruzioni su come manifestare la contrarietà del governo italiano rispetto all’andamento della cooperazione giudiziaria; il secondo è per dargli istruzioni su come liberare Patrick George Zaki, che sta lì tra un colpo di tosse e l’altro con la sua asma bronchiale in un carcere in cui è entrato il COVID-19».
Questa nuova strategia sembra in realtà mandare un messaggio molto chiaro: il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi non svelerà mai pubblicamente la verità intorno alla vicenda di Giulio Regeni, così come non l’ha fatto per le altre migliaia di casi che riguardano cittadini egiziani di cui non conosciamo neppure i nomi. Non lo farà né con l’Italia né con organizzazioni internazionali, perché la sensazione è che questo sistema fatto di repressione e di silenzio sia costitutivo del regime stesso, si possa considerare uno strumento di sopravvivenza del modello politico egiziano di oggi, così simile a quello che per trent’anni vide Hosni Mubarak a capo del Paese.
Secondo Lorenzo Cremonesi, giornalista del Corriere della Sera che da anni segue ciò che accade in Nord Africa, «Al Sisi e la sua nomenklatura non possono portare alla sbarra mandanti ed esecutori di Regeni per il semplice motivo che delegittimerebbero se stessi e quegli apparati legati all’esercito e ai servizi di informazione che li sostengono. Migliaia e migliaia di cittadini egiziani, oltre ad un pugno di stranieri, sono stati vittime del regime. Le poche voci che riescono a trapelare dai carceri egiziani raccontano di condizioni terribili, torture e desaparecidos. Lo stesso ex presidente Mohamed Morsi è morto in carcere il 19 giugno 2019 e le cause reali del suo decesso restano segrete».
Anche se l’impressione è che il regime oggi sia forte e solido, sarebbe sbagliato pensare che parte della sua forza non arrivi dalla legittimazione data dai suoi interlocutori. Su questo punto insiste proprio Amnesty International: «Chi ha messo al-Sisi in questa posizione di forza negli ultimi quattro anni ha una responsabilità. Si trova a Roma, a Palazzo Chigi, sede di più governi che hanno mantenuto, con l’eccezione del periodo da aprile 2016 ad agosto 2017, una posizione di indulgenza, di ricerca di recupero dei rapporti, di miglioramento, di rafforzamento. Questa strategia non ha pagato. L’Italia dovrebbe farsi promotrice di un’azione che sul piano diplomatico metta pressione sull’Egitto. Averlo blandito finora non ha portato a nulla, è una politica di appeasement che nella storia si è scoperto non ha mai dato buoni risultati».
Mentre per la vicenda di Giulio Regeni le speranze si affievoliscono, una buona notizia arriva dalle carceri egiziane: lunedì 6 luglio è stato liberato, dopo 500 giorni di detenzione, Mohamed Amashah. Il ventiquattrenne, che ha doppia cittadinanza statunitense ed egiziana, era finito in carcere nel marzo 2019 dopo aver esposto un cartello in piazza Tahrir, già cuore della “primavera egiziana” nel 2011, con la scritta Libertà per tutti i prigionieri politici. Tanto era bastato per un’incarcerazione che è terminata soltanto grazie a una costante pressione sull’esecutivo egiziano da parte del governo statunitense, ottenendo la sua liberazione in cambio della rinuncia alla cittadinanza egiziana da parte di Amashah. Un piccolo elemento di speranza, almeno per Patrick Zaki, per cui il governo italiano ha ancora il tempo di agire.