Teologia insieme, a tutto campo
30 giugno 2020
Studiosi protestanti e ortodossi per un corso di laurea della Lateranense
Il 19 giugno è stato presentato il corso di laurea biennale che la Pontificia Università lateranense avvierà in autunno, un corso che si varrà anche di docenti protestanti e ortodossi. Il programma è stato predisposto da un comitato organizzatore, coordinato da Giuseppe Lorizio, di cui fa parte anche il pastore Fulvio Ferrario, decano della Facoltà valdese di Teologia dove insegna Teologia sistematica. A lui ci siamo rivolti per capire la portata ecumenica, oltre che scientifica, dell’iniziativa.
– Un corso “interconfessionale” alla Pontificia Università lateranense: perché oggi? È un’anticipazione di un futuro o, al contrario, dovremmo chiederci: “perché solo oggi”?
«Preferisco la formulazione: “perché oggi?”, senza il “solo”. L’idea ha delle radici. Va menzionata una ricerca comparativa su aspetti centrali della fede cristiana, che ha prodotto diversi impegnativi volumi curati dal prof. Lubomir Žak e dal luterano Eilert Herms. Poi è stato svolto un intenso lavoro in occasione del V centenario della Riforma, culminato in un convegno e nella relativa pubblicazione. In questa occasione, la Facoltà valdese è stata coinvolta fin dall’inizio e si è consolidato un rapporto, in particolare con il prof. Lorizio, che è stato un po’ l’anima di quell’avventura, così come dell’attuale programma. Lorizio sottolinea spesso che un impulso decisivo è stato fornito dal papa, in una sua visita alla Pul. Naturalmente non si tratta di un progetto “congiunto”: è un’impresa della Lateranense e noi siamo ospiti. Devo dire, però, che poche volte (potrei menzionare un congresso della Facoltà Marianum su Maria nella Riforma e nel protestantesimo, a esempio) ho visto un coinvolgimento così profondo degli “ospiti” fin dall’ideazione del ciclo».
– Il corso si rivolge agli studenti in vista di una laurea specialistica: questo significa che al livello degli studi più approfonditi vi è già un modo di lavorare in sintonia fra studiosi delle diverse confessioni? Parrebbe di sì, tenendo conto di esperienze come il lavoro benedetto di istituti come il “S. Bernardino” a Venezia. Ora si scrive un nuovo capitolo?
«Su molte questioni dottrinali, le principali differenze non sono tra cattolici e protestanti, bensì trasversali rispetto alle confessioni. Il caso dell’Ortodossia è forse un poco diverso, ma si possono trovare cattolici, cattoliche e protestanti che sostengono alcune tesi e altri cattolici, cattoliche e protestanti che ne sostengono altre. Ci si divide confessionalmente, invece, sulla dottrina della chiesa. La novità di questo progetto è precisamente nel fare teologia insieme nei vari campi anziché concentrarci sull’ecclesiologia soltanto. Su quest’ultimo tema il lavoro pionieristico (è iniziato trent’anni fa) del “S. Bernardino” resta unico nel suo genere. Se ora la Lateranense scrive un nuovo capitolo, ciò non significa che il grosso volume (in trent’anni, di capitoli se ne elaborano parecchi) scritto dal “S. Bernardino” sia vecchio!».
– Possiamo avere dei nomi, o quantomeno venire a conoscere gli ambiti da cui si è partiti per il reperimento e coinvolgimento dei docenti?
«I nomi sono molti e non tocca a me elencarli o (ancora più pericoloso!) operare una scelta esemplificativa. Posso dire che finora è stato programmato il primo anno e che le persone sono state scelte tra cattolici, ortodossi, protestanti in senso “classico”, carismatici e pentecostali, anglicani, in un orizzonte ampiamente internazionale».
– L’argomento da lei scelto per la sua parte di corso sarà l’escatologia, tema poco “in voga” in questi ultimi anni, in casa tanto cattolica quanto protestante, benchè qualche studioso l’abbia recentemente affrontato, per esempio in rapporto alla narrativa. Perché dunque questo tema impegnativo? Non è strano che ce ne occupiamo così poco, in anni in cui abbiamo parlato tantissimo di Bonhoeffer e della sua chiara distinzione tra “cose ultime e penultime”?
«Beh, il penultimo è tale solo in rapporto all’ultimo. In caso contrario, quanto dovrebbe restare relativo viene assolutizzato, il che costituisce la struttura di ogni idolatria. Potrei dire che, essendo anziano e preparandomi (comunque senza fretta) alla mia escatologia personale, ritengo opportuno cercare di farmi un’idea in proposito. Più seriamente, mi sento sfidato dal compito di dire a questa società: “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Più che “poco in voga”, si tratta di un discorso spesso ritenuto “stolto”, anche nella chiesa (e questo mi fa arrabbiare non poco). Chi cerca di credere, però, sa che esiste una “stoltezza di Dio” che è più “sapiente degli uomini e delle donne”. Non sono affatto sicuro, e non è modestia di circostanza, di essere in grado di parlarne, ma ci voglio provare. L’escatologia è la dottrina della speranza».
– Quali altre ricadute potrà avere questo corso con il suo gruppo di studiosi (e speriamo anche studenti) nell’ambito del “calendario ecumenico” prossimo venturo?
«Su questo ho opinioni ecumenicamente assai poco corrette. Penso che questo corso, e molte altre iniziative, teologiche, ma ancor più di preghiera, lettura biblica, impegno di servizio, abbiano gettato molti ponti, ben prima che personaggi importanti usassero questa espressione. Come membro di una piccola minoranza, che rappresento a destra e a sinistra, ufficialmente e più spesso no, faccio continuamente esperienze di comunione delle quali non potrei più fare a meno, che cioè ritengo essenziali per la mia vita di credente. Sono appassionatamente evangelico, ma non potrei esserlo senza la testimonianza di sorelle e fratelli cattolici. Poi c’è un sistema di potere, con relativa teo-ideologia, che ritiene di poter affermare che una chiesa “rivendica per sé, nel presente come nel passato, il diritto di essere la vera chiesa di Cristo” (si tratta di una citazione letterale: non dico di chi, ma non è Ratzinger). Ho perso ogni interesse per questo dibattito e per il piagnisteo evangelico per essere riconosciuti come “vera chiesa” da gente che ha il fegato di esprimersi così. So bene di vivere come peccatore in una chiesa peccatrice: lo faccio però nella speranza che sia il Signore a riconoscere me e la mia chiesa. Per grazia, certo. Ma in fondo anche perché, con tutta la nostra mediocrità, abbiamo provato a testimoniarlo».