Oggi, noi siamo storia
07 maggio 2020
La scuola e le chiese costrette a fare i conti con la lontananza fisica fra le persone: bisogna salvaguardare l’intimità della riflessione spirituale ma anche la disponibilità all’ascolto
Una caccola. L’ho vista in maniera pirandelliana oggi attaccata all’asciugamano del viso. Verde e secca, sporgeva sulla spugna sbiadita e indurita dai lavaggi. Quell’asciugamano devo averlo usato diverse volte quando i miei figli erano piccoli, posizionandolo sotto il loro corpo che si dimenava durante il cambio del pannolino. Le scuole materne non riapriranno probabilmente a settembre. È questo il timore di molte famiglie: non c’è possibilità di assicurare il distanziamento sociale né impedire la trasmissione di germi. I bambini fino ai 6 anni sono quelli che meno hanno percepito il problema della chiusura della scuola: per loro tutto è relazione. L’esperienza si struttura nella scoperta: l’esplorazione è centrale nella pedagogia attiva.
Niente di più distante da quanto avviene nella maggior parte delle nostre chiese oggi dove l’attività è improntata sul “baby parking produttivo”: assimilazione di concetti biblici di cui la famiglia non intende farsi carico. Lo stesso sta avvenendo nella scuola. Grazie all’emergenza Covid-19, siamo ritornati alla pedagogia frontale. Nel secolo scorso la scuola italiana, forte dell’esperienza maturata da educatori, medici e intellettuali vissuti a cavallo fra le due guerre mondiali, era stata innovativa e appassionata, rovesciando lo schema dell’apprendimento adulto-bambino e puntando sulla massima inclusività.
Oggi assistiamo a un’involuzione. Le famiglie chiedono lunghe ore di didattica online per tranquillizzarsi di fronte alla propria inesperienza decennale, distanziarsi dalla costrizione di spazi con i propri figli, essere rassicurati. Per non essere meno presenti di altri sul web sono state inserite anche le lezioni di pallavolo a casa. Ma le chiese che cosa stanno imparando dall’esperienza dei propri membri? Manca l’aspetto educativo nella gestione di questa emergenza sanitaria, quell’attenzione che era centrale negli anni del secondo dopoguerra. L’esperienza delle generazioni passate è stata l’elemento propulsore di dialogo con le nuove vite. Si voleva costruire un futuro migliore pieno di speranza.
Quali sono le nostre speranze oggi? Le famiglie hanno storie diverse. L’ascolto pastorale dovrebbe essere in grado di coglierlo, come fa un buon insegnante. Come insegnanti oggi siamo privati dell’elemento centrale: la relazione quotidiana con l’altro. Come la scuola, la chiesa si potrebbe ridurre a un contenitore che offre servizi diversificati. Ascolto passivo, assegnazione di compiti, verifiche falsate. Le chiese hanno mantenuto un ascolto attivo o si sono concentrate sulla diversificazione proliferando in schermi in cui ognuno diventa maestro frontale?
Lo schermo ha violato e violerà a lungo la nostra intimità domestica mettendo in luce le ombre di disagi coniugali, relazioni non bilanciate ma anche affetti e forte desiderio di coesione. In un territorio pastorale che diventa sempre più fluido, le famiglie hanno spesso cercato di gestire i contagi nel silenzio, temendo lo stigma. Gli operatori sanitari non sempre sono riusciti a proteggere i loro figli dal virus. I nonni, gli amici, sono finiti in ospedale. Qualcuno non è tornato. Chi parlerà ai bambini e ai ragazzi in modo autentico della perdita e della morte?
La nostra chiesa è diventata lo specchio della società: ci sono cose di cui non si parla ma la relazione non può essere demandata a uno schermo. Nel libro di Isaia, dopo aver esaminato le ragioni che hanno portato il popolo a essere responsabile del proprio drammatico presente, è scritto (30, 15): «Poiché così aveva detto il Signore: “Nel tornare a me e nello stare sereni sarà la vostra salvezza; nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza”; ma voi non avete voluto!».Siamo incapaci di operare una scelta coraggiosa di cambiamento? Lo spazio pubblico deve tutelare l’intimità della riflessione spirituale, specie dei più giovani. La riservatezza sta alla base dell’Evangelo e nasce dall’ascolto empatico dell’altro.
Nella didattica a distanza stiamo assistendo all’assenza di ascolto empatico, di condivisione di merende e litigi, assenza di scambio di opinioni fra i più grandi e un maggior utilizzo incontrollato dei social da parte dei minori. I ragazzi e i bambini con Bisogni educativi speciali (Bes) sono gestiti da insegnanti che vengono improvvisamente proiettati nelle case. Si può veder rifiorire i propri alunni se la mamma ora dedica il suo tempo completamente a loro eppure se ne coglie il limite: sarà difficile il reinserimento scolastico fra gli studenti e la burocrazia. Ai Bes e ai ragazzi diversamente abili, le nostre chiese hanno mai pensato veramente? Non abbiamo mai prestato attenzione agli spazi inclusivi che oggi si sommano all’assenza di norme di sicurezza, sanificazione e distanziamento sociale.
Vorrei che la risposta della chiesa oggi non fosse quella del libro di Isaia. Se riusciremo a riprendere un dialogo biblico attivo, dedicando tempo alle persone, realizzando progetti condivisi non secondo le mode della visibilità ma guardando al Creato, avremo reso attuale la Parola di Dio e la Sua volontà. Quella caccola sull’asciugamano, stamattina mi ha ricordato che siamo esseri concreti, dotati di esperienze simili da valorizzare. Diverso è il valore che diamo al tempo per imparare. Degli studenti ricordavano alla loro insegnante in questi giorni che sentono di essere storia. Che tipo di storia decideremo di scrivere a partire da questa esperienza? Il Dio che si rivolge a noi con: «Ascolta Israele…» ci aveva già insegnato il senso di un’esperienza che si fa memoria, educa e interroga.