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Il bene che voglio, non faccio

Un giorno una parola – commento a Romani 7, 19

I vostri peccati vi hanno privati del benessere
Geremia 5, 25

Il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio
Romani 7, 19

Quando leggiamo il capitolo 7 dell’epistola ai Romani, la situazione che l’apostolo Paolo descrive ci interroga e provoca in noi una profonda scissione: “il bene che voglio, non faccio”, appartiene all’uomo vecchio perdonato e giustificato? E l’uomo nuovo vive ancora questo dissidio?

L’apostolo descrive semplicemente questa situazione interiore ed esteriore propria di ogni discepolo e discepola del Signore. Non ci dà risposte e non risolve il dilemma, lo lascia a noi.

Descrive, insomma, una realtà esistenziale del progetto salvifico di Dio in Cristo che non si è ancora pienamente compiuto nella vita personale di ciascun/a credente. Un già e non ancora!

Un non ancora determinato dalla libera scelta o non scelta di ciascun/a di accogliere la grazia di Dio e di permettere allo Spirito Santo di operare progressivamente la sua azione santificante.

È questo uno spazio per intuire e ricercare la promessa desiderata, per dire sì a un dono ricevuto a “caro prezzo”. Una situazione interiore dove il credente e lo Spirito entrano in una relazione di intimità per accogliere l’amore di Dio.

Il capitolo 7 si chiude con una dossologia, come accade spesso nei Salmi. Dopo aver dato sfogo al lamento, al dubbio, alla rabbia, si finisce per esaltare Dio e per innalzare a Lui una lode. “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (vv. 24-25).

“Signore, nostro Dio! La tua grandezza, il tuo splendore e la tua santità superano quella di tutti gli esseri umani. Ma la tua grandezza consiste anzitutto nel fatto che non hai voluto dimenticarci, lasciarci soli e rigettarci, malgrado tutto ciò che parla contro di noi” (Karl Barth).

 

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