Montecitorio apre le porte a «Gli Ultimi saranno»
06 febbraio 2020
Lunedì prossimo nella Nuova Aula dei gruppi parlamentari sarà presentato il progetto grazie al quale la musica e l’arte incontrano i detenuti. Ne parliamo con l’on. Raffaele Bruno, promotore dell’iniziativa
Lunedì 10 febbraio alle ore 16 nella Nuova Aula dei gruppi parlamentari, si svolgerà il convegno/spettacolo “Gli Ultimi saranno”, progetto in cui musicisti e attori si uniscono ai detenuti e tramite l’arte si condividono storie di vita, difficoltà e speranze. Ne parliamo con Raffaele Bruno, deputato del M5s, di fede evangelica battista, promotore dell’iniziativa.
«Gli Ultimi saranno è un progetto che nasce nel dicembre 2018 – in parallelo con l’inizio della mia avventura istituzionale, e in continuità con il lavoro fatto con il collettivo artistico “Delirio creativo” – sull’intuizione che l’arte è un potente strumento di elevazione umana, un modo per permettere a parti lontane della società di trovare un luogo comune in cui incontrarsi. Partendo da questa idea abbiamo organizzato una serie di incontri in carcere, luogo particolarmente simbolico di lacerazioni, difficoltà, e di sofferenza. Così, dal dicembre 2018 insieme ad un gruppo di artisti, abbiamo realizzato 25 incontri in 16 carceri diversi (in alcuni siamo ritornati) e l’evento che si terrà a Montecitorio lunedì prossimo raccoglie le esperienze acquisite fino ad adesso».
Cosa accade durante uno spettacolo de «Gli Ultimi saranno»?
«Più che di spettacolo parlerei di “rito di improvvisazione”. Noi andiamo in carcere con un nostro repertorio di testi teatrali e di brani musicali, ma la scaletta è totalmente variabile, infatti, viene contaminata splendidamente dagli interventi dei detenuti. Siccome vogliamo puntare il faro sugli effetti benefici dell’arte, e quindi sui laboratori creativi che avvengono nelle carceri, prima dell’incontro contattiamo i responsabili dei laboratori invitandoli a preparare insieme ai detenuti dei contributi; poi, quando noi arriviamo, mettiamo insieme i loro pezzi con i nostri, e si crea un repertorio completamente nuovo, inedito: tutti insieme portiamo avanti lo stesso discorso. Spesso accade che qualche ospite della struttura chiede in maniera estemporanea di unirsi a noi per recitare o cantare, a quel punto si annulla completamente ogni idea di contrapposizione e tutto diventa condivisione circolare. Ecco, proveremo a riprodurre questo schema anche a Montecitorio».
Chi ci sarà il 10 febbraio a Montecitorio?
«Ci saranno gli artisti che di solito sono con me: Maurizio Capone, Luk (Enzo Colursi) e Blindur (Massimo De Vita), e Federica Palo. Ci sarà poi la realtà delle carceri che fino ad ora abbiamo incontrato e a cui abbiamo chiesto due cose: la prima, di far partecipare alcuni detenuti che reciteranno insieme a noi; è una cosa unica o rarissima che dei detenuti abbiano avuto l’opportunità non solo di entrare alla Camera ma anche di parlare; la seconda, di raccontare le buone pratiche messe in atto negli istituti penitenziari. Sono state invitate anche delle personalità del Governo, della cui presenza stiamo aspettando conferma. Ci auguriamo che ci sia uno scambio di buoni esempi, e soprattutto uno scambio umano di emozioni».
Qual è l’obiettivo di questo progetto?
«Il primo obiettivo è farlo, è vivere questo momento, che noi troviamo straordinario, unico: Poi, altro scopo è quello di stare insieme a partire dall’idea di essere tutti parte di una comunità che è presente quando c’è qualcuno che soffre e che ha bisogno di un sostegno. Il carcere, come ci ricorda l’art. 27 della Costituzione dove si riconosce la funzione rieducativa del carcere, è luogo di opportunità, di salvezza, di aiuto di persone che, spesso, per un concorso di responsabilità, sono arrivate a fare delle scelte sbagliate. Con Gli Ultimi saranno vogliamo puntare il faro su questo concetto e mettere l’accento su tutte le associazioni e i laboratori teatrali che quotidianamente operano nelle carceri, affinché abbiano maggiori tutele e sostegno. Altro obiettivo del progetto è di segnalare altre iniziative legate a questo progetto, come “Dona un libro”, lanciata anche dal presidente della Camera, Roberto Fico: una campagna di raccolta e distribuzione di libri con dedica destinati alle biblioteche carcerarie. Si tratta di un altro ponte che vogliamo costruire tra il dentro e fuori, un messaggio di vicinanza verso le persone che stanno vivendo un momento buio».
Come si traduce tutto questo impegno sul piano istituzionale?
«Sono il primo firmatario di una mozione, che dovrebbe essere discussa in aula a breve, per chiedere al Governo di supportare le amministrazioni penitenziarie nell’organizzazione di progetti con finalità culturali, concentrandosi in particolare sui laboratori teatrali, con la prospettiva di definire un quadro normativo per gli operatori all’interno delle carceri e rendere il teatro parte integrante delle strutture. La mozione chiede anche una mappatura dei diversi progetti per verificare le correlazioni con il tasso di recidiva dei detenuti, nella convinzione che l’arte ha un valore enorme nel ridare speranza a una persona che prima o poi uscirà dal carcere. Concludo, portando un piccolo esempio di come da un incontro umano, in cui si vivono delle emozioni, si possa innescare una catena virtuosa. Durante una visita al carcere di Salerno, un agente penitenziario ci ha segnalato che una grande sofferenza per i detenuti era che i loro figli non avevano la possibilità di giustificare le assenze a scuola quando andavano a fargli visita. Da questa segnalazione si è messa in moto una serie di passaggi che hanno portato alla nascita di una circolare emanata dal Miur lo scorso ottobre proprio sulla deroga per le assenze dei figli di detenuti che possono andare a trovare il genitore senza rischiare di perdere l’anno scolastico».
Cosa ha significato e significa per lei l’impegno nelle carceri?
«L’impegno nelle carceri è parte della mia vocazione, un modo in cui riesco a vedere plasticamente il senso del mio essere credente, del mio essere un artigiano dell’arte, e adesso anche del mio ruolo istituzionale. Andare in carcere è trovare un po’ una sintesi tra tutte queste anime, e un luogo in cui portare l’insegnamento cristiano che ho avuto fin da piccolo di che cos’è una comunità e di come si vive in comunità. Anche il carcere è una comunità, quindi andare lì e raccontare l’esempio cristiano di stare insieme è per me un seme. Con la nostra presenza e l’arte proviamo a far sì che il carcere non sia come un terreno roccioso e sabbioso in cui cade invano il benefico seme, ma cerchiamo di costruire insieme una terra fertile in modo che il seme che proviamo a portare possa fiorire».