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La cattiveria come linguaggio

Lo scadimento della politica passa anche attraverso la violenza delle parole

Ci risulta difficile ma forse dobbiamo prendere atto che nell’azione dei moderni partiti post-ideologici l’etica della verità e la misura dei gesti e delle parole non sono più una virtù. In sprezzo dell’etica repubblicana di Kant e della tolleranza di Locke, ormai vince il famoso assunto del “fine” della costruzione del consenso elettorale che giustifica i “mezzi” per conquistarlo, secondo la nota formula di Niccolò Machiavelli. Lo stesso per il quale il vero e il migliore capo politico non ha intrinseche doti etiche – pericolosissime perché possono indurre a debolezze letali nell’esercizio del potere – ma le qualità congiunte della forza e dell’astuzia. Leone e volpe, quello capace di azzannare, questa di capire quando è più conveniente fuggire; quello dotato di una forza rude, questa astuta e capace di preparare delle trappole per il nemico. Siamo così pronti a estendere anche alla politica quella brutta affermazione per cui “in guerra come in amore tutto è permesso”.

Gli effetti di questa militarizzazione dei sentimenti e delle relazioni sono devastanti ma questa sembra essere la tendenza. Oggi si può. Si può scrivere Juden hier sulla porta di casa del nostro vicino ebreo (o ritenuto tale); si può citofonare a un ragazzo tunisino e chiedergli se spaccia droga; si può concedere la cittadinanza a una sopravvissuta della Shoah e, pochi giorni dopo, intestare una via a un teorico della superiorità della razza ariana che ha combattuto con i nazisti; si può salire su una ruspa e distruggere, ghignando a favore di telecamere, un campo rom. Ma si può anche mentire affermando che i profughi in accoglienza in Italia ricevono 35 euro al giorno cash; si può anche annunciare una svolta politica in materia immigratoria che “irregolarizza” decine di migliaia di persone utilizzando un’espressione sintetica e dozzinale come «È finita la pacchia»; si può titolare che i musulmani sono “bastardi” o gridare “negro di m.” negli stadi senza che questo produca fatti di rilievo. Si può. Come si può dialogare con i neofascisti borchiati di Casa Pound, ragazzi forse un po’ esagitati ma comunque utili a tenere alto il morale nelle situazioni difficili. Si possono anche fare valutazioni da caserma in pieno stile anni ’50 sul fisico della cancelliera Angela Merkel; volendo, si può anche buttare orina di maiale negli spazi dedicati alla costruzione di moschee. “Buonista” è un efficace insulto a chiunque si impegni in azioni di solidarietà, pericolosa falla di un sistema che predica individualismo e sovranismo. 

La politica ha sempre avuto alti e bassi, miserie e nobiltà, ma dopo la fine delle appartenenze ideologiche che comunque imponevano una misura e uno stile di comunicazione – pensiamo a De Mita o a La Malfa, a Zanone o a Berlinguer – ogni limite è stato abbattuto nel nome dell’incisività della comunicazione e ogni comportamento, boutade, sciocchezza, millanteria o menzogna sono sostanzialmente concessi e considerati una variabile della comunicazione politica. Tanto più se “bucano” e raccolgono follower che replicano con emoticon infantilmente semplificati: un battimano, un cuoricino, un dito alzato. Per qualcuno è democrazia virtuale. A noi pare una epocale regressione comunicativa che però finisce per incidere sulla qualità dell’azione e della proposta politica. 

Se può essere una buona notizia, in questa débacle dell’etica della comunicazione politica non siamo soli. Anni fa, uno degli intellettuali più brillanti degli Stati Uniti, l’afroamericano docente a Yale Stephen Carter, scrisse un prezioso libro intitolato Civility, nel quale denunciava la trivializzazione del linguaggio e dello stile politico. La tesi di fondo è che il linguaggio e lo stile non sono accessori della politica ma ne costituiscono elementi portanti, e pertanto trivializzare il linguaggio politico equivale a trivializzare le politica. «La nostra civiltà nei riguardi degli altri – afferma – non dipende se ci piacciano o meno». «La civiltà richiede che noi ci sacrifichiamo anche per l’estraneo, non solo per coloro che conosciamo». «La civiltà ha due aspetti: la generosità, anche se ha un prezzo. E la fiducia, anche se è rischiosa». «La civiltà non impone solo dei doveri negativi come quello di non ferire. Ma anche quello affermativo di fare il bene». Il libro fu scritto più di venti anni fa e oggi alla Casa Bianca c’è un politico come Donald Trump che di civility mostra averne ben poca. Anzi, gli Stati Uniti della nuova Destra repubblicana degli affaristi come Trump e dei predicatori fondamentalisti più radicali, a cui si ispirano il vicepresidente Mike Pence o il segretario di Stato Mike Pompeo, sono stati il laboratorio che ha affinato il concetto stesso di fake news.

Mal comune non può e non deve essere mezzo gaudio. Ma se una lezione possiamo ricavare da questa vicenda è che un certo modo di fare comunicazione e quindi politica ha avvelenato i pozzi della verità della coesione sociale e della civiltà etica e giuridica. Una politica davvero “nuova” e “altra” non può partire che da linguaggi nuovi e altri rispetto a quelli che ci assordano e ci feriscono ogni giorno.

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