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Violenza di genere, per l’Italia sono ancora molte le ombre

Dal rapporto del Consiglio d’Europa sull’Italia emerge un quadro poco incoraggiante, ma non mancano le opportunità per cambiare

Lunedì 13 gennaio il Consiglio d’Europa ha pubblicato il primo rapporto sull’attuazione, da parte dell’Italia, della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, di cui l’Italia è parte dal giugno 2013.

La Convenzione è considerata il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, ed è incentrata sulla prevenzione, la protezione delle vittime e la sanzione dei trasgressori. Inoltre, nel testo si fornisce una definizione di genere come «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».

“La causa dell’uguaglianza di genere – si legge nel rapporto – incontra ancora resistenze nel Paese e sta emergendo una tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità”.

Nel 2019 diverse realtà associative italiane, tra cui Di.Re., Donne in rete contro la violenza, avevano presentato un “rapporto ombra”, inviato al GREVIO in vista dell’esame dell’Italia, nel quale il nostro Paese veniva indicato come sessista e in cui il cambiamento culturale e normativo sono molto lenti e faticosi. A distanza di poco meno di un anno, il rapporto del gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa sembra confermare questa lettura.

Marcella Pirrone, avvocata, una delle esperte di Di.Re. che ha coordinato il gruppo di lavoro che ha partecipato al monitoraggio, spiega che «al di là dell’esame di tutto ciò che in Italia esiste a livello legislativo, la denuncia principale rimane il terreno culturale, su cui non attecchisce nulla. Abbiamo una cultura caratterizzata dagli stereotipi tradizionali dei ruoli uomo-donna e anche abbastanza misogina. Siamo contente che le esperte, che sono tecniche, quindi non caratterizzate da ideologie, abbiano riscontrato lo stesso problema nelle politiche, negli strumenti di applicazione delle leggi, nell'educazione, nelle scuole e tutto ciò che caratterizza la cultura di un Paese».

I due piani, quello normativo e quello culturale, sono strettamente legati, soprattutto quando si tratta di passare dalla legge alla sua applicazione. Proprio questo passaggio risulta particolarmente complicato in Italia, nonostante la presenza di norme che in alcuni casi sembrano andare nella giusta direzione. Il GREVIO, infatti, ha espresso soddisfazione “per l’adozione di una serie di riforme legislative che hanno consentito l’introduzione di misure concrete per porre fine alla violenza sulle donne: alcuni di tali interventi legislativi hanno rappresentato sensibili passi avanti, come la normativa del 2009 contro lo stalking, o la legge n. 119/2013, che ha sancito l’obbligo delle autorità di sostenere e promuovere, in particolare attraverso l’assegnazione di mezzi finanziari, una vasta rete di servizi di assistenza alle vittime”. Eppure, molto sembra mancare, soprattutto in termini di visione complessiva. «Il piano nazionale antiviolenza – spiega Marcella Pirrone – è uno strumento che ogni governo si dà o si dovrebbe dare per attivare delle politiche organiche integrate. Abbiamo sulla carta delle parole abbastanza adeguate, ma le misure di implementazione sono molto carenti. Manca un coordinamento tra l'aspetto nazionale e quello regionale, con grandi differenze territoriali e manca soprattutto la disponibilità di strumenti e mezzi economici e finanziari per poter attuare ciò che viene indicato come un progetto politico».

La Convenzione di Istanbul contempla le donne in quanto categoria da tutelare in senso ampio, e questo diritto alla protezione è considerato universale. Di conseguenza, un Paese ha il dovere di offrire prevenzione e protezione dalla violenza anche a chi non ha un regolare permesso di soggiorno. Tuttavia, l’Italia non sembra osservare questo obbligo, ma anzi, con i due Decreti Sicurezza voluti dal precedente governo sono stati compiuti passi in direzione opposta. «Le donne immigrate – chiarisce Pirrone – avrebbero il diritto di chiedere asilo anche per situazioni di violenza, ma vengono ignorate e anzi riportate in situazioni di vittimizzazione secondaria».

L’Italia venne sottoposta all’esame del GREVIO nel primo trimestre del 2019. Erano i mesi del decreto Pillon, proposto dal senatore leghista Simone Pillon e dedicato alle “norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”. Numerose proposte contenute in quel testo, che oggi è finito su un binario morto e uscito di scena, facevano emergere una visione molto conservatrice della famiglia, considerata come un modello unico e immutabile. «Quella legge – racconta Marcella Pirrone – non prendeva sul serio la violenza nelle decisioni che riguardano le coppie che si separano e divorziano. Esiste un'assoluta disattenzione e quindi si trattano casi e si impongono misure di affidamento anche a figli che ignorano totalmente la violenza, con un fallimento della protezione dei figli e anche una vittimizzazione e una colpevolizzazione delle madri». Un problema non legato a una singola legge, ma inserito in un più ampio clima culturale, a cui soltanto la politica può offrire spunti di cambiamento.

Eppure, non mancano lati positivi: due testi sono stati ritenuti particolarmente innovativi dal rapporto, ovvero il decreto 80/2015, le cui disposizioni prevedono un congedo speciale retribuito per le lavoratrici vittime di violenza di genere che hanno bisogno di liberarsi dalla situazione di abuso, e la legge 4/2018, che contiene numerose misure a tutela degli orfani di una vittima di crimine domestico ed è forse unica in Europa. «Le leggi – ammonisce tuttavia l’avvocata Pirrone – sicuramente servono come cornice, ma è importante munirle di strumenti applicativi. Oggi gli stanziamenti non sono assolutamente soddisfacenti, queste leggi non stanno funzionando bene, però sicuramente vanno portate avanti». Per farlo, il Consiglio d’Europa chiude con una raccomandazione: le politiche antiviolenza devono essere integrate e monitorate attraverso un coordinamento efficace tra le autorità nazionali, regionali e locali. Insomma, il proposito è quello di restituire centralità alle reti antiviolenza, spesso a corto di fondi e di personale, e altrettanto di frequente messe in dubbio da quella stessa politica che le dovrebbe supportare.

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