Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio
10 gennaio 2020
Fra precarietà e innovazione, la disoccupazione non è inevitabile
Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar e troverete la differenza tra lavorare e comandar… Così cantavano le mondine chinate tutto il giorno nelle risaie. E nelle filande torinesi, a fine '800, le operaie ragazzine sotto i 15 anni lavoravano in media 16 ore al giorno a “sbubiné i bigat”, cioè sbobinare i bachi, sedute davanti a una bacinella d'acqua bollente per tirar fuor il filo di seta.
La storia delle lotte per la riduzione dell'orario di lavoro è un capitolo fondamentale della lotta di classe, con una prima data importante: l'accordo siglato il 28 febbraio del 1919 (cent' anni fa) tra la Federazione degli industriali metallurgici e la Fiom (gli operai metalmeccanici), che recepiva una storica rivendicazione del movimento operaio: la giornata lavorativa di 8 ore. Non erano soltanto i sindacati a ritenere necessaria la riduzione dell'orario, ma anche padroni “illuminati” come il presidente della Fiat Giovanni Agnelli e economisti come Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica (questo nel 1933).
Il passaggio successivo è quello verso le 40 ore, ottenute nei contratti del 1962 – 63, in seguito alla ripresa delle grandi lotte operaie nel contesto del “miracolo economico”, lotte che mettono in discussione, oltre alla retribuzione, anche la qualità del lavoro, la salute...Nelle manifestazioni dell'autunno “caldo” compaiono cartelli con su scritto: la salute non si monetizza. (Come non pensare a Taranto e a tanti altri stabilimenti che costringono anche oggi all'alternativa tra occupazione e inquinamento, come se fosse impossibile produrre senza fare danni irreparabili all'ambiente e alle persone o, all'opposto rendere funzionanti gli impianti solo a condizione di massicce riduzioni di personale, cioè licenziando.
Negli anni '60 sulla questione dell'orario di lavoro si sviluppa anche una discussione specialmente nella Cgil: i lavoratori preferiscono in maggioranza la “giornata corta” piuttosto che la “settimana corta”, ma in tal modo si da spazio a modifiche unilaterali dell'orario giornaliero, per le necessità aziendali, pur rispettando il limite settimanale...Senza entrare nel dettaglio, è necessario sottolineare che, almeno in parte, la riduzione dell' orario di lavoro ha come conseguenza un aumento dell'occupazione, a condizione che ci sia un forte sindacato in fabbrica capace di impedire che i vantaggi della riduzione dell'orario siano vanificati, sia dal punto di vista occupazionale che dell'organizzazione del lavoro. Ci sono voluti altri 18 anni perché gli accordi contrattuali sull'orario di lavoro venissero recepiti in una legge!
Negli anni '80 del secolo scorso (!) la battaglia (animata soprattutto dall'estrema sinistra) si concentra nello slogan lavorare meno lavorare tutti (in Francia si sperimenteranno le 35 ore settimanali, che si rivelano però un fallimento perché il costo di un ora lavorativa diventa eccessivo). Ma l'obiettivo della settimana corta, continua ad essere proposto e sperimentato, specialmente nei paesi del Nord. In Danimarca si lavora in media 7 ore e mezza (e c'è un progetto pilota per arrivare a 33- 30 ore settimanali). Situazione analoga in Svezia e Finlandia. Anche una grande azienda come la Toyota ha sperimentato turni di 6 ore. I risultati, a giudizio dei lavoratori sono positivi: si lavora meglio, più concentrati, c'è più tempo da dedicare alla famiglia, ad un parente malato, ai propri interessi culturali…Naturalmente alla riduzione dell'orario corrisponde un taglio nella busta paga, tuttavia sopportabile. Anche in Italia la Luxottica sta sperimentando la possibilità di un lavoro ridotto da 8 a 6 ore per 5 mesi all'anno e in tal modo sono state assunte 1700 persone a tempo indeterminato.
Dalle mondine dell'800 stiamo arrivando alla settimana supercorta.
Tutto questo riguarda purtroppo soltanto gli occupati, i garantiti (e privilegiati perché avranno anche la pensione): la questione decisiva di oggi è, come sappiamo, la disoccupazione, il precariato, l'assenza di prospettive per i giovani e anche la perdita di diritti. Del resto, come già sosteneva il vecchio (ma non poi tanto...) Marx, la presenza di un gran numero di disoccupati è funzionale all'esistenza stessa del sistema capitalistico, perché alimenta la concorrenza tra i lavoratori, le guerre tra i poveri, toglie forza alla contrattazione o semplicemente la elimina: se non ti sta bene così ce n'è subito un altro a prendere il tuo posto, dalla raccolta dei pomodori alla consegna dei pacchi di Amazon...
Anche se le prospettive sono oscure e se è vero che ciò che viene presentato come flessibilità è alle volte pura precarietà, o se i contratti a tempo indeterminato non sono vere nuove assunzioni ma trasformazione di contratti a termine, tuttavia qualche segnale positivo non manca, come la sperimentazione del lavoro a distanza, magari fatto da giovani che contemporaneamente tornano al pascolo in montagna e fanno formaggio ...
Lavorare tutti, lavorare meglio, lavorare meno è possibile. La disoccupazione non è inevitabile anche se la concorrenza sarà in futuro fra umani e robot intelligenti. Sarebbe incoraggiante vedere per una volta il nostro Parlamento, governo e opposizioni, tutti quanti all'opera per iniziative e investimenti che creino lavoro, contro la precarietà, perché i giovani vedano un futuro, non solo all'estero. Del lavoro vero e stabile, non soltanto dei posti di lavoro incerti.