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Tra fede e letteratura

Il romanzo dell’800 dava visibilità alla tensione fra l’individuo e il trascendente. Il ’900 apre a nuove prospettive, ma denota anche l’incertezza di un’epoca che stenta a gestire idee e passioni. Colloquio con il pastore e teologo Giorgio Tourn

«... appunto in questo consiste il nostro terrore, nel fatto che così fosche vicende abbiano quasi cessato di farci terrore! Ecco di che cosa bisogna sentir terrore, dell’abitudine che ci abbiamo fatta, è non già esclusivamente del misfatto di questo o di quell’individuo». Sembra un discorso di oggi, ma è la requisitoria contro Dmitri Karamazov, accusato di parricidio, nel capolavoro di Dostoevskij (1880).E siccome uno dei più interessanti testi critici sullo scrittore si deve a un gran teologo come Eduard Thurneysen (1921), ne parlo con Giorgio Tourn, pastore valdese e teologo. «La letteratura – mi dice – e in particolare il grande romanzo dell’800, manda in superficie il travaglio che uomini e donne portano dentro di sé. E ciò vale anche per il loro rapporto con il trascendente: anzi più che la teologia, è la fede, il modo in cui i cristiani la vivono, ad avere un rapporto con la letteratura. Nella formulazione della propria fede, alcuni sono riusciti a utilizzare lo strumento della letteratura, come d’altra parte tanti artisti. Ma gli artisti – pittori, architetti – erano spesso interni alla “macchina chiesa”, e comunque il loro lavoro poteva essere controllato passo passo dal committente: una pala d’altare, una cappella. La letteratura implica un coinvolgimento totale, personale del soggetto,. Non si poteva scrivere I fratelli Karamazov senza una complessa ricerca di fede, anche se originale e personalissima, e comunque questo poteva essere verificato solo una volta stampato il testo».

E allora che succedeva? «Succedeva – riprende Tourn – che il romanzo ottocentesco dava vita a grandi indimenticabili personaggi, sulle cui spalle gravava il compito di scandagliare i drammi del mondo: allora si pensava che l’animo umano potesse essere uno specchio del mondo». Da qui le pagine piene di interminabili discussioni, volte a rendere la complessità delle idee, le posizioni dilaceranti, le sfumature e le contraddizioni, fino alle teorizzazioni dei terroristi nei Demoni. «Erano personaggi che capivano come nessun altro in che modo l’essere umano si facesse intersecare dalla trascendenza: pensiamo al principe Myskin, protagonista dell’Idiota: queste figure, peraltro, esistevano o erano i portavoce dell’autore? Due grandi capolavori, Il viaggio del pellegrino del seicentesco John Bunyan e Timore e tremore di Kierkegaard si valgono di personaggi (addirittura Abramo nel secondo caso), ma quei testi sono una confessione di fede del loro autore».

E poi? «Nel 900 è saltato tutto: dopo la guerra 15/18 il “dramma” non si può più personificare e il fulcro non è più nel personaggio ma nelle relazioni, nel tessuto sociale, nelle infinite connessioni; il personaggio non basta più, e infatti Pirandello lo moltiplica in uno, nessuno e centomila...». Scompare anche il “grande romanzo di idee”. Il periodo fra le due guerre, annunciatore di tragedie ma anche ricco di creatività, si confronta con la fabbrica con la metropoli e la folla; e poi, dopo Auschwitz, prova a ricostruire. «Oggi, se si dovesse scrivere un romanzo o un dramma “cristiano”, dovrebbe scrivere sul disfacimento delle relazioni e sulla difficoltà di capire il senso che sta cambiando». E le chiese fanno opera di relazione più che di elaborazione. Negli Usa però va diversamente, gli americani hanno iniziato con Moby Dick a fare grandissima letteratura intrisa di Bibbia, e continuano anche oggi con i romanzi di Marilynne Robinson: «Certo – mi dice il pastore –: la letteratura americana trasferisce in forma letteraria le categorie fondanti della sua cultura, che non è la nostra, ed è fatta di un sostrato biblico, che tutti conoscono e riconoscono». E se oggi non scriviamo più romanzi ottocenteschi, possiamo ancora leggerli: e trovarvi la messa a nudo del male come elemento costitutivo della condizione umana, legato alla complessità delle nostre relazioni e reazioni, spesso contorte più che scontate, sofferte o esibite con troppa sicurezza: poi si finisce per trovarsi in un mondo “alla rovescia”, in cui si ritiene che chi salva delle vite sia da considerarsi fuorilegge.

Nella foto lo scrittore Fëdor Dostoevskij

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