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Italia, i detenuti crescono ancora di numero

I primi sei mesi del 2019 segnano un ulteriore aumento della popolazione carceraria, aggravando una condizione alla quale il governo pensa di rispondere costruendo nuovi istituti

Giovedì 25 luglio è stato presentato il nuovo rapporto sulle carceri italiane, curato dall’associazione Antigone, che dagli anni Novanta svolge un lavoro di monitoraggio e sensibilizzazione sul sistema penale italiano. Il rapporto, dedicato alla prima metà del 2019, conferma il ritorno di un problema mai del tutto superato, quello del sovraffollamento.

Al 30 giugno 2019 i detenuti presenti nelle 190 carceri italiane erano 60.522, un numero cresciuto negli ultimi sei mesi di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Come si legge nel rapporto, il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. «Ancora non siamo ai livelli che determinarono la condanna dell'Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo», racconta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, «ma se continuiamo con questa progressione, quello era il 2013, si può pensare che tra circa quattro anni saremo in quelle condizioni». Secondo le statistiche fornite dal ministero della Giustizia, i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che secondo Antigone non tiene però conto delle sezioni chiuse, come quelle delle carceri di Alba e Nuoro. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà alla capienza attuale del sistema penitenziario italiano vanno dunque sottratti almeno 3.000 posti non agibili. Nel 30% degli istituti visitati da Antigone in questi primi mesi dell'anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 metri quadrati per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante. Si tratta di un aumento di detenuti che, secondo i dati Istat, non corrisponde a un incremento dei reati. «La tendenza è costante – prosegue Marietti – nonostante continuino a diminuire gli ingressi in carcere, quindi significa che una volta che entri fai molta fatica a uscire».

Un’altra tendenza raccontata dal rapporto riguarda invece gli stranieri nelle carceri. Negli ultimi dieci anni, infatti, i detenuti di origine non italiana sono diminuiti del 3,68%, e la loro presenza si è ridotta anche in senso relativo: se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%. «Il carcere – chiarisce Susanna Marietti – rimane comunque un grande veicolo di selezione sociale, perché se sommiamo la percentuale degli stranieri alla percentuale degli italiani provenienti dalle quattro grandi regioni meridionali, quindi dalla parte più povera dell'Italia, arriviamo quasi all'80% della popolazione detenuta. Dando uno sguardo alla composizione sociale, dal punto di vista dell'istruzione abbiamo un tasso di analfabetismo in carcere che è il doppio di quello esterno, e allo stesso modo i laureati in carcere sono un ventesimo in percentuale rispetto a quelli in libertà».

Il sovraffollamento carcerario non rappresenta soltanto una questione quantitativa, ed è qui che il problema diventa ancora più serio: la vita in carcere, che ha lo scopo non soltanto di punire, ma soprattutto di accompagnare verso un reinserimento sociale una volta scontata la pena, sta peggiorando, ritornando verso i livelli che condussero alla sentenza Torreggiani, emessa l’8 gennaio del 2013 dalla Corte europea dei diritti umani e che viene considerata una “sentenza pilota” che ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. Allora la reazione fu rapida, ma gli effetti sembrano già sbiaditi. «Quando il governo di allora prese, attraverso due decreti legge che si susseguirono, una serie di provvedimenti successivi alla sentenza Torreggiani, quantitativamente i numeri calarono di 15 mila unità. Qualitativamente furono prese una serie di misure per rendere la vita in carcere più aperta e più responsabilizzante, per esempio l’indicazione per cui le celle dovevano stare aperte almeno otto ore al giorno in tutto il circuito di media sicurezza e si doveva mettere in campo quella che il Consiglio d'Europa chiama la "sorveglianza dinamica", vale a dire un modello di custodia del detenuto che non si basa solamente su sbarre e cancelli, per cui il poliziotto diventa un apritore e chiuditore di cancelli, ma si basa sulla conoscenza delle persone detenute da parte degli agenti di polizia penitenziaria in maniera da comprendere le dinamiche che si creano in sezione e quindi riuscire in qualche modo a governare la situazione anche lasciando aperti i detenuti, come accade nella vita libera, perché quello che tutti gli organismi sovranazionali dicono è che, per quanto possibile, la vita in carcere dovrebbe essere il più vicina possibile a quella vita libera dove poi i detenuti dovranno ritornare. Si era fatta una buona strada in questa direzione, che però in coincidenza con l'insediamento del nuovo governo, che ha un'altra visione della pena, sta cambiando: i cancelli si vanno a richiudere e la vita diventa meno responsabilizzante per il detenuto».

Il peggioramento della qualità della vita, inoltre, si ripercuote anche sul numero dei suicidi, in crescita rispetto agli anni precedenti. «Ogni suicidio – precisa Marietti – è il frutto di una disperazione individuale che può provenire da mille fattori che s'incrociano. Non voglio dire che se vivi in una cella sovraffollata ti suiciderai, però non c'è dubbio che un sistema sovraffollato sia un sistema dove non solo manca lo spazio, ma dove viene a mancare anche l'attenzione al singolo individuo. L'attenzione che era pensata per un certo numero di persone va frazionata e quindi cresce il rischio che questa disperazione individuale, frutto di elementi complessi, non venga intercettata. In un sistema sovraffollato, poi, si può prevedere tristemente che il numero dei suicidi cresca».

Di fronte a uno stato di sovraffollamento tornato ormai strutturale, pur avendo i numeri dell’emergenza, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato a più riprese la volontà di avviare un programma di edilizia carceraria mirato a costruire nuove strutture detentive, una strada che mostra in modo chiaro la differente interpretazione del problema, a cui si immagina di rispondere in forma espansiva, predisponendosi dunque a un amento dei detenuti nonostante la riduzione dei reati, anziché investire in misure alternative e strumenti per il ritorno alla libertà. Sempre più carcere all’orizzonte, dunque.

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