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Non lasciarsi inghiottire dal carcere

Civitavecchia. Dal 2018 un progetto pilota finanziato dall’Otto per mille battista per sostenere gli agenti di Polizia penitenziaria e prevenire il rischio di «burnout»

Le persone che operano nel Corpo di Polizia Penitenziaria sono esposte quotidianamente a un così forte ed evidente disagio psicologico tanto che l’opinione pubblica ne è informata costantemente. Infatti spesso si hanno notizie di eventi drammatici che coinvolgono queste persone che operano a contatto con situazioni di sicurezza sociale e di controllo della devianza.

Prima del 15 dicembre 1990 questo organismo deputato alla sicurezza, aveva la denominazione di Corpo degli Agenti di Custodia. Da questa data il Corpo venne smilitarizzato assumendo la odierna denominazione di Corpo di Polizia Penitenziaria. La custodia ha tuttavia radici di fondazione già nel lontano 1817, ma si strutturò definitivamente nel 1873. Forse non è azzardato dire che, nella storia, l’uomo deve sempre aver vigilato su un altro uomo ritenuto dannoso per altri uomini affinché pagasse per il suo comportamento in un regime di controllo. Chi controlla altri uomini è soggetto a tensioni, stress, pensieri, in grado, nel tempo, di incidere sul suo tono dell’umore come sulla condizione psichica più ampia che comprenda dunque l’emozione e il comportamento vero e proprio come risultato del substrato emotivo.

Nella interpretazione psicologica della totalità dell’uomo, ogni comportamento è la conseguenza della emozione. Le persone dedicate alla sicurezza sociale, dunque, sono esposte più di altre a situazioni psicologiche difficili da gestire, in quanto essere vicino costantemente ad individui con un disagio sociale, che porta alla violenza e alla mancanza di rispetto delle regole, determina una sorta di onda emotiva di tale intensità e profondità, capace, nel tempo, di investire e disorientare la personalità dell’operatore al punto da fargli perdere significato esistenziale e lucidità. È chiamata sindrome di burnout. Le conseguenze di stare vicino al disagio degli altri provoca, dunque, uno stress talmente forte da creare nel tempo nella persona un tale disorientamento che può produrre conseguenze drammatiche.

In base alla triste realtà sociale dei suicidi degli Agenti di Polizia Penitenziaria conseguenti alla sindrome di burnout, nel 2018 e nel 2019 la Chiesa battista di Civitavecchia ha voluto proporre e realizzare, con un finanziamento dell’otto per mille battista, un Progetto Pilota di sostegno psicologico specialistico per gli Agenti di Polizia Penitenziaria che operano nelle carceri. Finalità del progetto è stata operare nella prevenzione e nella anticipazione delle dinamiche di disagio, andando nella direzione di un aiuto concreto per gli agenti attraverso un professionista che conoscesse già le complesse dinamiche psicologiche della carcerazione per avvicinare e sostenere, con deontologia professionale e una competenza psicoterapeutica diretta e specifica, il complesso lavoro trattamentale dell’agente. Metodologia del progetto sono stati i colloqui e le tecniche di autocontrollo con tempo di durata di sei mesi. In alcune specifiche circostanze, si è ravvisata l’opportunità che dei colloqui con gli agenti venissero svolti insieme a direttori e commissari, per favorire quanto più possibile e con la massima sinergia di competenze, il senso di appartenenza al Corpo.

Riguardo la necessità di incoraggiare negli agenti questo senso di appartenenza, non può non essere ricordato che già nel 2014 era stata prevista dal Ministero della Giustizia in ogni Istituto di Pena la figura del facilitatore, una figura autorevole e con spiccate abilità relazionali, individuata in un dipendente ministeriale dell’Istituto, che, resosi disponibile e volontario, avrebbe dovuto facilitare i rapporti tra personale e istituzioni. Purtroppo, la figura del facilitatore non ha avuto seguito e continuità. Per una attività di dedizione così significativa e specialistica alla persona-agente, è consigliabile una presenza dedicata, meglio con una professionalità specifica e con competenze psicoterapeutiche, in quanto, le problematiche di chi svolge attività lavorativa nelle carceri sono profonde, spesso subdole e latenti, in grado di cambiare e modificare il tono dell’umore curvandolo verso il nervosismo, la perdita di lucidità, la demotivazione come la depressione.

In questi sei mesi di attività professionale dedicata esclusivamente al Corpo di Polizia penitenziaria, sono emerse alcune considerazioni riguardo un modello di intervento specifico. È opportuno svolgere un preciso e attento lavoro di squadra in cui partecipino, oltre gli agenti, anche i commissari e gli ispettori al fine di realizzare una attività capillare che consenta di mettere l’agente al centro di un processo di coinvolgimento e che quindi favorisca il terapeutico senso di appartenenza. Infatti, è proprio il senso di appartenenza che consente di arginare la perdita di senso, quella triste condizione psichica che spesso attanaglia chi svolge lavori di difesa sociale a stretto e continuo contatto con la popolazione detenuta assorbendone le relative complesse e insidiose dinamiche di adattamento al regime carcerario. È altresì necessario precisare che la finalità del progetto pilota, non era rivolto solo agli agenti, ma, dove richiesto e necessario e previa necessaria autorizzazione del Commissario, anche per i loro familiari allo scopo di svolgere un servizio psicologico che proponesse linee guida comportamentali.

Spesso i familiari subiscono – più o meno consciamente – le dinamiche e i disagi che gli agenti assorbono nel loro lavoro. In conclusione, il tipo di lavoro realizzato in questo progetto ha avuto la caratteristica di andare verso la persona con una modalità che ha previsto, tuttavia, un necessario accordo con le varie competenze di Polizia Penitenziaria che operano nel carcere. Tale modalità sinergica ha permesso di individuare gli agenti più a rischio di burnout, quindi incontrarli per spiegare il significato dell’aiuto e successivamente sostenerli con specifiche tecniche psicoterapeutiche previste dal professionista, fuori dall’orario lavorativo. Una sinergia di lavoro di squadrasi considera fondamentale per un sostegno completo ed efficace.

Senza un metodo così strutturato, il progetto non avrebbe avuto gli stessi apprezzati riconoscimenti dalle figure che ne hanno usufruito, pur nella sua breve durata e che ha prodotto un benessere sufficiente da migliorare il contatto comunicativo con i detenuti a vantaggio di una gestione più adeguata e professionale delle dinamiche relazionali detentive.

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