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Crocifisso: questione di arredo o simbolo divisivo?

Torna il dibattito sui crocifissi nei luoghi pubblici. L’opinione di Ilaria Valenzi, consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia

A Chivasso in provincia di Torino la direzione dell’ospedale ha deciso che i crocifissi dovranno essere collocati in tutte le stanze.

Periodicamente questo argomento torna nel dibattito politico e culturale del nostro paese. Ne abbiamo parlato con Ilaria Valenzi, consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei):«Che i crocifissi siano esposti negli uffici pubblici è previsto da due regi decreti, del 1924 e del 1928, che dettagliano quali debbano essere gli arredi pubblici e prevedono, oltre all’immagine del re, anche l’esposizione di un crocifisso. Il contesto di emanazione di queste leggi è quello del ventennio fascista; da lì a poco ci saranno i Patti lateranensi e la legge sui culti ammessi che mantiene il principio albertino della religione cattolica come religione di stato. Con l’avvento della Repubblica questi regi decreti sono stati modificati, ma solo per la parte che riguarda l’immagine del monarca che è stato sostituito dal presidente della Repubblica. Quindi, tutte le argomentazioni di tipo politico e identitario che sono chiamate in causa quando si parla di questo argomento sono supportate da una legge che non prevede un obbligo religioso ma che è una semplice legge sugli arredi degli uffici pubblici.

Negli anni questa vicenda è balzata più volta alle cronache ed è stata oggetto di processi e atti giudiziari; nel 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata interpellata nel caso Lautsi contro Italia: due genitori che, dopo i ricorsi in Italia, si sono appellati in Europa per togliere i crocifissi dalle scuole. In prima istanza il ricorso era stato accolto facendo leva sul principio della libertà di educazione ma l’Italia aveva fatto appello e la Corte europea dei diritti dell’uomo alla fine aveva dato ragione al nostro Paese indicando il principio giuridico del margine di apprezzamento, in questo caso della libertà di religione, per il quale ogni stato mantiene le competenze specifiche in questa materia.

Questa sentenza dice anche che il crocifisso è un simbolo passivo, cioè un simbolo che non molesta i non credenti. In tutti gli atti giuridici emerge quindi sempre il fatto che il crocifisso non è un simbolo religioso, ma un emblema che parla della nostra identità culturale di italiani; questa commistione tra il piano giuridico e quello culturale ha dato modo di superare l’argomentazione puramente religiosa e ha quindi contribuito a diffondere una visione neutra. Nel momento attuale però questa argomentazione diventa estremamente pericolosa perché il simbolo non è usato in maniera passiva, neutra, ma in forma divisiva, quasi a marcare un territorio, per individuare chi è dentro e chi è fuori sulla base della propria identità culturale, che è anche un’identità religiosa, dimenticando volutamente che l’Italia è un paese pluralista da sempre, e noi protestanti ne siamo i primi testimoni.

C’è quindi una legge che consente l’esposizione di questi crocifissi, una legge che però potrebbe essere facilmente eliminata. Ciò non si vuole fare perché negli anni l’argomento è diventato intoccabile, un feticcio, una barricata. Un’altra strada percorribile e di buon senso sarebbe quella di lasciare alla buona capacità delle amministrazioni e dei cittadini il compito di superare questi orpelli legislativi che ci portiamo dietro da molto tempo, che fanno parte di un passato che speriamo non torni e che sono frutto di quel tipo di cultura. La volontà pervicace, che periodicamente si riaffaccia, di voler esporre nuovamente i crocifissi ci dice però che c’è un uso strumentale e pretestuoso di questi temi che, viceversa, potrebbero essere superati semplicemente riflettendo sul fatto che una società integrata come la nostra accoglie tutti e non ha bisogno di usare i simboli in maniera divisiva».

FILIPPO BERTA, IN OUR IMAGE AND LIKENESS, 2017. Foto di Elena Ribet

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