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Trame di Vita

La tessitura come progetto di arte terapeutica offerta a donne ospiti di un centro per migranti e richiedenti asilo di Milano

Solo stasera, alla Claudiana di Milano, sarà presentato un progetto artistico terapeutico dal titolo Trame di Vita.

L’idea è di Chiara Guerrini, studentessa tesista del biennio specialistico in Terapeutica Artistica, presso l’Accademia di Brera, che per il suo progetto di tesi ha pensato di svolgere un laboratorio presso il Centro per migranti e richiedenti asilo di via Carcano a Milano. Durante gli incontri con alcune donne del centro, che si sono svolti da novembre 2018 e sono terminati a inizio febbraio, tutti i martedì mattina per tre ore, il lavoro si è svolto intorno al tema della tessitura portando alla creazione di quattro tele finali, che rappresentano non solo il risultato di un’attività pratica, ma anche l’intreccio e la tessitura di rapporti e di scambi tra queste donne.

Oggi alle 18 c’è l’inaugurazione durante il quale Chiara Guerrini  spiegherà il progetto e il lavoro che è stato svolto; ci sarà l’installazione dei lavori che quindi potranno essere visti fino alle 20, orario di chiusura della libreria. Dopodiché le opere rimarranno nel centro di accoglienza di via Carcano.

Ne parla l’ideatrice Chiara Guerrini.

 

Coma nasce questo progetto?

«L’idea nasce molti mesi fa, dopo la lettura di un saggio, Donne che corrono coi lupi scritto dalla psicanalista junghiana Clarissa Pinkola Estes. Si tratta di un saggio che parla del femminile, della donna attraverso delle favole. Dopo averlo letto ho deciso che per il mio progetto di tesi finale avrei voluto lavorare con sole donne e infatti il lavoro è stato svolto con donne migranti ospiti del centro di accoglienza di via Carcano».

 

Qual è lo scopo dell’arte terapeutica?

«Attraverso l’arte terapeutica noi cerchiamo di far si che chi partecipa all’opera condivisa si prenda cura di sé con piacere. Nel caso di questo laboratorio abbiamo costruito dei telai per poter tessere fili di diverso spessore, dalla lana, al cotone e la seta, cercando di riconnettersi a dei movimenti corporei e dei materiali che non utilizziamo più tanto durante la nostra quotidianità. L’arte, che risveglia una creatività presente in tutti noi, va anche a stimolare il piacere del movimento del corpo e la creazione di relazioni. Questo è l’obiettivo dell’arte terapeutica».

 

Perché lavorare al telaio?

«Il telaio è un oggetto simbolico del mondo femminile e fa subito venire in mente Penelope. Infatti si è creato un certo parallelismo con il personaggio, ripensandola rispetto alla concezione di donna passiva e perennemente in attesa. Sotto un’altra luce Penelope agisce e sfrutta il presente al meglio: attraverso lo stratagemma di disfare di notte quello che di giorno fila, sceglie di non scegliere un pretendente, quindi in realtà agisce. Noi in questi pochi mesi abbiamo deciso di provare a scrivere una nostra storia personale insieme alle altre partecipanti. Le parole che venivano scambiate in questi momenti sono state metaforicamente fissate sul supporto materico attraverso il filo.

I telai erano quattro, ognuno con un colore dominante: giallo, rosso, blu e verde. Le partecipanti potevano scegliere il tipo di filo e il colore e imbastire il telaio in maniera totalmente libera; nel lavoro di arte terapeutica non è importante avere una tecnica. Il risultato finale sono i quattro telai di colori diversi molto pieni, che risultano come dei tappeti verticali o degli arazzi».

 

Com’è andato questo percorso da un punto di vista umano e relazionale?

«È stato molto difficile all’inizio relazionarsi perché la diffidenza da parte di queste donne era tanta. Non mi conoscevano, non sapevano cosa andavano a fare. Soprattutto quello che chiedevano è a che cosa potesse servire il laboratorio. Effettivamente l’arte terapia è una cosa nuova anche per il mondo occidentale, e lo è stata soprattutto per delle ragazze molto giovani, che magari sono state vittime di tratta provenienti da paesi dell’Africa come la Nigeria, la Costa d’Avorio, la Libia e il Marocco. Per loro è stato un messaggio difficile da comprendere. Abbiamo provato a includerle in modi diversi, anche attraverso il cibo che ha creato momenti di relazione e condivisione. Dobbiamo ricordare che queste donne si trovano in una struttura senza attività organizzate al di là degli appuntamenti medici o burocratici; lo sforzo per noi è stato proporre un laboratorio che per loro non aveva alcuna utilità pratica: non venivano pagate per farlo e non stavano imparando un mestiere. Con la scusa del cibo, della colazione insieme, la partecipazione è stata avvantaggiata.

I telai sono i risultati di ogni incontro, di ogni personalità che ci ha lavorato e delle relazioni che si stavano stringendo».

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