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Partire dalla ricerca della verità

Il buon giornalismo deve rifiutare la pratica oramai imperante delle semplificazioni. Non siamo di fronte a nessuna invasione

Se provassimo a ripetere ripetutamente la parola invasione per un numero indeterminato di volte, quella parola finirebbe per dare una forma spaventosa al fenomeno migratorio a prescindere dai dati reali, dalle statistiche, dal numero reale di arrivi. Invasione, invasione, invasione, invasione. L’invasione più che un fatto diventerà uno stato d’animo e ogni volta che la parola invasione verrà ripetuta scatterà una reazione condizionata in chi legge e ascolta: la paura.

È un meccanismo che negli ultimi anni si è ripetuto con cadenza costante.Frutto di un rituale sempre uguale se stesso che ha visto protagoniste nelle cronache giornalistiche le parole d’ordine della politica. Un meccanismo innescato da un allarme lanciato a ridosso dell’estate che annunciava l’arrivo imminente di centinaia di migliaia di migranti, ammassati sulle coste libiche e pronti a partire. «Un milione», «seicentomila», «ottocentomila». Numeri spaventosi che aprivano la strada alla conta quotidiana degli arrivi sulle nostre coste che nelle cronache televisive diventavano nutrimento per ansia e paura. In realtà i numeri annunciati non sono mai arrivati davvero, alla fine dell’estate i conti offrivano dati molto minori, ma non c’è mai stata una conseguente rassicurazione, tutt’altro. Il meccanismo ansiogeno era pronto a rimettersi in moto.

Il lettore o spettatore medio ha subito questo meccanismo per almeno dieci anni, ovvio che la sua percezione della realtà sia stata condizionata dall’ansia e dalla paura che sono rimaste accese e sensibili a ogni sollecitazione. E credo che questo trattamento sia la causa di ciò che oggi renda possibile che sei italiani su dieci, secondo quanto racconta un sondaggio, ritengano troppi 47 naufraghi su una nave di soccorso. 

Il punto è che l’informazione principale conteneva le parole chiave della politica che rilanciavano la paura dell’invasione. Se guardassimo lucidamente i numeri degli ultimi quattro anni di arrivi conteremmo meno di seicentomila persone, un numero che non riuscirebbe a riempire piazza San Giovanni a Roma. Davvero un numero ingestibile? 

Le parole possono modificare i fatti, costruiscono una percezione distorta della realtà.Con le parole si fanno le cose, diceva il linguista John L. Austin, le parole diventano cose quando vengono pronunciate o scritte. Non è semplice descrizione, semplice cronaca. La scelta delle parole da forma al racconto, lo rende visibile, diventa contenuto. E le migrazioni sono il tema principale sul quale si misura il buon giornalismo, che nulla ha a che fare col giornalismo buono. La responsabilità di chi scrive è esattamente questa: se sceglie parole spaventose determinerà una reazione spaventata. E se sceglie le parole spaventose della politica, fa un lavoro che col giornalismo ha poco a che fare.

Tra chi scrive ci sono quelli che io chiamo gli spaventatori, professionisti della propaganda. Sono i portavoce dell’odio promosso a programma politico di formazioni e partiti che proprio sull’odio fondano il consenso. Le parole non sono mai sbagliate, è l’uso che ne facciamo che può essere sbagliato, che può deformare il fatto che viene raccontato. 

Se oggi non c’è una rivolta etica e sociale contro l’orrore dei porti chiusi, contro la negazione della pietà, contro l’uomo col megafono che urla sempre più forte, è perché negli ultimi anni la politica ha dettato l’agenda, ha coniato parole d’ordine, ha usato le parole per deformare la realtà dei fatti e ha approfittato di un giornalismo distratto, a volte complice, spesso incapace di fare le domande necessarie. L’orrore oggi è accettabile, l’idea che dei bambini anneghino in mare è accettabile, l’idea che delle persone in fuga dalla tortura, dall’inferno libico vengano riportate indietro nello stesso inferno di torture e stupri, è accettabile. Una delle parole che è stata strumento di questo processo involutivo aberrante, è la parola clandestino.All’inizio, negli anni 90, erano tutti marocchini, a prescindere dal colore, dalla provenienza. Erano talmente marocchini che un giornale fece un titolo su un incidente stradale scrivendo «morto un uomo e un marocchino».

La disumanizzazione iniziava così,con un titolo di giornale che però riprendeva parole e concetti che erano di uso comune nel linguaggio della politica. Marocchino, extracomunitario, vucumprà, clandestino, parole che tutti ripetono senza rendersi conto di quanto siano disumanizzanti.

La parola clandestino è un esempio lampante di come si riesca a trasformare una notizia e a dare connotato negativo a una persona, a un gruppo di persone, stabilendo a priori che si muova di nascosto, al buio, come una minaccia costante alla nostra sicurezza. È una parola giuridicamente sbagliata, chi arriva sui barconi non si nasconde affatto, anzi chiede aiuto, chiede protezione internazionale secondo i trattati che, a cominciare da quello di Ginevra, stabiliscono abbia diritto a chiedere. Continuare a chiamare clandestini le persone a bordo dei gommoni o delle navi di soccorso è improprio, volutamente allarmistico, propaganda che parla alla pancia e ci riduce tutti come pugili suonati, che al suono del gong si mettono in guardia per difendersi da un pericolo che nella realtà non esiste affatto.

È necessario ritornare all’origine, rileggere l’articolo 21 della Costituzione, assimilare il concetto base del giornalismo che chiede la ricerca della verità sostanziale dei fatti.

 

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