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Accogliere l'altro e accogliere la Parola

L'ospitalità e la necessità della lettura biblica nelle chiese evangeliche

Non sempre estate significa pausa, le cattive notizie, purtroppo, non vanno in vacanza. E anche le ultime settimane ci hanno offerto, dentro e fuori dal Bel Paese, novità non sempre confortanti. Tra le prese di posizione più significative delle ultime settimane, su un tema che è sempre di attualità, vi è il Manifesto per l’accoglienza della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Tanto vale non nascondersi dietro un dito: qualcuno – anche e proprio all’interno delle nostre chiese – avrà pensato: accoglienza, migranti, e quindi Mediterranean Hope e Corridoi umanitari, ci risiamo, si parla solo più di questo! Non sono pensieri e parole che appartengono solo all’uomo qualunque delle città o dei paesi che abitiamo; talvolta, sono pensieri e parole che accompagnano anche i discorsi di quanti chiamiamo fratelli e sorelle. Forse, prima di reagire con una semplice reprimenda, ci si dovrebbe interrogare sulle ragioni di queste espressioni, anche e proprio tra i credenti?

Uno dei testi più belli che la teologia del XX secolo ci ha consegnato, come criterio per articolare una parola evangelica capace di interrogare e orientare i credenti, è sicuramente la Dichiarazione teologica di Barmen. Scritta com’è noto in un tempo in cui altri signori e altri poteri rivendicavano la loro autorità sugli spiriti e sui corpi degli individui, ha la capacità di riaffermare, in maniera fondamentale, l’unica signoria di Dio in Gesù Cristo, che è al tempo stesso affermazione di grazia nella vita del credente e chiamata alla nuova obbedienza. Leggendo il testo della Fcei mi è venuto spontaneo pensare a Barmen; in parte perché alcune espressioni che ricorrono nel Manifesto per l’accoglienza sono mediate dalla più celebre dichiarazione, in parte perché la logica a cui il testo richiama è molto simile. L’impegno per l’accoglienza, l’impegno in favore dello straniero-migrante non è, come emerge con chiarezza, una mera attitudine di cui una società civile si debba fare portavoce (e, beninteso, già questo sarebbe molto); questo impegno è radicato nella Parola che chiama alla nuova obbedienza e respinge le «obbedienze» alternative, respinge l’obbedienza alla voce che grida «prima noi, poi gli altri», respinge l’obbedienza che molti e diversi idoli, che assumono l’aspetto accattivante del vitello d’oro, chiederebbero a chi ascolta. Eppure, anche la logica dell’obbedienza alla Parola che chiama al nuovo cammino, anche la logica che esprime l’esigenza forte che Dio vuole far valere in tutti gli ambiti della nostra vita, è monca, è priva di fondamento, se dimentica che essa è, parimenti e al tempo stesso, la dichiarazione della grazia di Dio in Gesù Cristo. Insomma, l’esigenza dell’evangelo che ci chiama rischia di rimanere una parola lanciata nel vuoto senza la dichiarazione dell’evangelo che ci fonda, ci costituisce.

È proprio qui che si aprono, per la vita delle nostre chiese, le domande più conturbanti. In che misura questo legame che ha costituito la base di una sana riflessione teologica almeno nelle ultime tre generazioni, è ancora parte dell’orizzonte della nostra predicazione? E, soprattutto, in che modo la parola della predicazione è ancora oggi al centro della riflessione di fede dei singoli e della chiesa tutta? Spesso, l’impressione è che quei fratelli e quelle sorelle di chiesa che assumono posizioni ed esprimono opinioni differenti, per esempio sul tema del Manifesto per l’accoglienza, non lo facciano in un contrappunto con la predicazione della chiesa – cosa che sarebbe legittima – quanto piuttosto in ascolto di altre voci. Voci che strillano slogan, accattivanti e, talvolta, seducenti, non per questo, però, giusti o equi. Slogan che offrono e non impegnano. Ecco, forse la nostra predicazione può aiutare il nostro tempo a non scadere nell’imbarbarimento, se sarà capace di mostrare che una parola che offre senza impegnare, è una parola vuota. Allo stesso tempo, una parola che chiama all’impegno senza ricordare ciò che Dio ha in essa offerto, si affida ad un volontarismo fin troppo debole. L’evangelo che la chiesa è chiamata ad annunciare ci ricorda che in Cristo «incontriamo una lieta liberazione dagli empi legami di questo mondo in vista di un libero, riconoscente servizio alle sue creature» (Dichiarazione teologica di Barmen, II tesi). Trovare le parole per dirlo, è compito quotidiano.

 

Foto Elezioni ecclesiastiche del 23 luglio 1933 a Berlino. Propaganda nazista per la lista dei «cristiano-tedeschi» (Bundesarchiv, Bild 183-1985-0109-502 / CC-BY-SA).

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