Un porto sicuro troppo lontano
04 luglio 2018
Le navi di Proactiva Open Arms sono arrivate a Barcellona per sbarcare le persone soccorse al largo della Libia il 30 giugno, dopo il rifiuto di Italia e Malta ad aprire i propri porti. Intervista a Riccardo Gatti
Mentre le acque del Mediterraneo registrano un altro capitolo nero, con il recupero di 6 corpi da parte della Guardia costiera libica a est di Tripoli, si è conclusa verso le 12 di mercoledì 4 luglio l’operazione di salvataggio di 60 persone operato nei giorni scorsi dall’ong Proactiva Open Arms.
Questa mattina, poco prima di mezzogiorno, le due imbarcazioni dell’organizzazione catalana, la Open Arms e la Astral, sono arrivate al porto di Barcellona, dove la Croce Rossa spagnola, il comune di Barcellona e le autorità catalane hanno allestito un dispositivo di accoglienza simile a quello dell’arrivo della nave Aquarius a Valencia due settimane fa. I 60 migranti tratti in salvo al largo delle coste libiche il 30 giugno hanno quindi concluso il loro viaggio, segnato dal rifiuto delle autorità di Malta e Italia di accoglierli.
Come segnalato da Unhcr, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono almeno 400 le persone migranti morte nel Mediterraneo centrale negli ultimi 4 giorni mentre cercavano di raggiungere le coste europee, una strage che coincide con il sempre più forte processo di allontanamento dalle zone di salvataggio delle ong attive negli ultimi anni. Riccardo Gatti, direttore operativo di Proactiva Open Arms, raggiunto durante le operazioni di attracco, afferma che «è qualcosa di vergognoso allontanare operativi di salvataggio in tutti i modi, sia bloccandoli nei porti senza accuse formali sia cercando di non farli attraccare. Per venire a Barcellona abbiamo impiegato 4 giorni, mentre per arrivare in Italia ce ne vuole uno solo. Questo vuol dire che saremmo potuti tornare da almeno due giorni nella zona di salvataggio». La distanza dalla zona di ricerca e soccorso rappresenta un ostacolo altissimo alle operazioni di salvataggio, inoltre in contrasto con il diritto del mare, che prevede che le persone soccorse vengano sbarcate nel porto sicuro più vicino.
Intanto, dalla fine di giugno anche la Libia ha ufficialmente una zona di ricerca e soccorso (Sar, acronimo di Search and Rescue). L’Imo, l’Organizzazione Marittima Internazionale, ha dichiarato il 28 giugno 2018 che «il Governo libico ha inserito delle informazioni rilevanti nel GISIS Global SAR Plan, la directory relativa al piano SAR globale. Tra queste vi è anche la definizione di una regione di ricerca e soccorso». Già dall’inizio di giugno, in realtà, l’Imo aveva confermato che era stata inserita l’indicazione relativa a un’autorità nazionale libica nel piano globale di ricerca e soccorso, ma mancava un Centro di coordinamento dei soccorsi. Dalla fine di giugno, anche quel dato sembra essere presente: le autorità libiche internazionalmente riconosciute, infatti, hanno indicato l’aeroporto internazionale di Tripoli come centro di coordinamento congiunto delle operazioni di salvataggio, gestito da personale appartenente a forze militari o autorità civili. Tuttavia, l’ufficializzazione di una zona di ricerca e soccorso non scioglie i dubbi sulla sicurezza dei porti libici. Lo scorso maggio, il Tribunale del Riesame di Ragusa aveva rigettato il ricorso della Procura contro il dissequestro della nave Open Arms, che aveva rifiutato di consegnare le persone salvate alle autorità libiche, affermando che «la Libia non è un approdo sicuro quale delineato dal diritto internazionale». Anche la Lifeline, bloccata in mare per giorni, aveva rifiutato di eseguire l’ordine di riportare le persone a Tripoli, proprio perché, come aveva spiegato il fondatore dell’ong a Repubblica, «le persone fuggivano proprio da quel posto». Allo stesso modo, anche la Guardia costiera libica desta numerosi dubbi e preoccupazioni, confermati anche dal fatto che lo scorso 8 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha imposto delle sanzioni individuali a sei persone che gestiscono reti di traffico di esseri umani in Libia, e tra questi appare anche il nome di Abd al Rahman al Milad, capo dell’unità della Guardia costiera libica di Zawiyah, finanziata proprio dall’Unione europea. «La Guardia Costiera libica – ricorda Gatti – è la stessa che ci ha sparato. L’ultima cosa che vogliamo è avere problemi, ma la prima cosa che vogliamo fare è portare a termine i salvataggi. Ogni volta che dovremo soccorrere qualcuno mai potremmo riportare indietro le persone in Libia o ridarle ai libici, più che altro proprio perché violeremmo non solo le normative del mare, ma anche la Convenzione di Ginevra e i diritti umani. Insomma, rimaniamo ancora in quella nebulosa amministrativa o giuridica che si sta cercando di mettere in atto dall’Ue e dall’Italia».
Un’estate così complicata non mette però in dubbio le collaborazioni di Proactiva Open Arms: tra queste spicca quella con la Fcei, la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, e il progetto Mediterranean Hope, confermata dalla presenza a bordo in questa missione di Daniele Naso, che ha partecipato a due missioni, nel ruolo di cuoco di bordo. «Le chiese evangeliche – conclude Riccardo Gatti – sono molto decise nell’andare avanti, anzi, più è diventata difficile la situazione, più hanno mantenuto alto il loro livello di appoggio e di spinta a poter continuare. Alla fine questa sembra essere diventata una lotta di resistenza».
Oggi pomeriggio alle 16:30 a Barcellona si terrà una conferenza stampa con la presenza del fondatore di Proactiva Open Arms, Oscar Camps, la sindaca di Barcellona, Ada Colau, e numerosi esponenti della politica locale ed europea. Per le 60 persone migranti salvate, di 14 diverse nazionalità, ci sarà invece il trasferimento nei centri di accoglienza previsti dal comune di Barcellona.