L’Europa e noi
31 maggio 2018
Nel quattrocentesimo anniversario dell’inizio della Guerra dei Trent’anni, qualche riflessione sulle radici dell’Europa moderna, sul suo legame con la storia valdese e sull’oggi
Quest’anno ricorre il quattrocentesimo anniversario della Guerra dei Trent’anni (1618-1648): un conflitto che registrò, fatte le debite proporzioni, il più grande massacro nella storia europea. Dalle macerie di un Sacro Romano Impero che non riusciva più a tenere tutti sotto un’unica autorità, emergeranno le nazioni europee con i loro eserciti, i loro nuovi confini. Si profilava l’Europa di oggi. Le guerre, spesso svolte in nome di Dio, continuarono a insanguinare il continente. Occorrerà attendere la fine dell’ultimo conflitto totalitario mondiale, perché si possa progettare la vita di una nuova Europa, fondata sui valori dell’unità e della pace.
Ma in queste complesse vicende europee s’iscrive anche la storia della nostra minoranza. Se, nel corso del Medioevo, il movimento valdese non venne completamente sradicato dall’Inquisizione (com’era avvenuto invece con i Catari) ciò dipese anche dal fatto che tale movimento si trovava disseminato in varie parti d’Europa. Così, se nel corso del XIV secolo esso venne estirpato in Austria, ecco che nel XV secolo lo vediamo rinascere in Boemia, dove oltretutto costituirà una «internazionale valdo-hussita» impossibile da sradicare. E se poi i valdesi venivano annientati nel sud della Francia o in Calabria, eccoli indomiti riapparire altrove. Quando il popolo valdese sarà costretto, dopo crudeli devastazioni, all’esilio in Svizzera, la vicenda non si chiude: grazie anche all’aiuto dell’Europa protestante, vediamo dopo poco i valdesi tornare manu militari nel ducato di Savoia, per riconquistare le proprie terre confiscate. Del resto, la stessa adesione dei valdesi alla Riforma (1532) fu il precipitato di un confronto teologico e culturale con i riformatori: una decisione profondamente europea, se pensiamo che essa maturò lungo le vie di Praga, Strasburgo, Basilea, Neuchâtel e più tardi Ginevra.
Da secoli, in effetti, noi siamo partecipi della rete europea del protestantesimo. E ogni tanto siamo riusciti a offrire contributi importanti. Penso alla nascita del Consiglio ecumenico delle chiese nel 1948, di cui fummo tra le chiese fondatrici, o alla «Dichiarazione di Chivasso», redatta clandestinamente nel 1943 da un gruppo di valdesi: questo documento – che riguardava i diritti delle minoranze accanto alle rivendicazioni sull’autonomismo amministrativo, economico, linguistico e culturale – racchiudeva affermazioni sui principi di libertà religiosa e di laicità che anticiparono i temi del federalismo europeo. Tale radicale presa di posizione fu anche preparatoria alla lotta armata per liberare l’Europa dal nazifascismo.
Ecco, noi protestanti italiani siamo figli di questa storia. Mai come negli ultimi mesi, si sono avvertite bordate che vorrebbero ricacciarci dentro alle vecchie logiche nazionaliste; rigurgiti particolaristici e xenofobi che vorrebbero costringerci ad abbandonare il progetto di un’Europa unita e ospitale. Da alcune parti si prospetta di azzerare, con un colpo di spugna, quei contributi che le minoranze, compresa la nostra, hanno conferito alla crescita del nostro continente, in termini di dignità della persona, della sua libertà, del pluralismo, della democrazia, della solidarietà e dell’integrazione. Senza Europa noi non esisteremmo. Non facciamoci ricacciare nel buio dal quale faticosamente siamo usciti. Se non riusciamo ad andare avanti, oggi almeno difendiamo quella soglia di umanità faticosamente raggiunta.