Soccorso in mare ostacolato dalla Guardia costiera libica: l’Italia dovrà rispondere in sede europea
09 maggio 2018
Alla Sala stampa estera a Roma presentato il ricorso contro l’Italia per violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo, avanzato da migranti sopravvissuti al naufragio del 6 novembre 2017. Tra i ricorrenti una donna ospite alla Casa delle culture di Mediterranean Hope (FCEI) di Scicli (RG)
17 nigeriani, tutti sopravvissuti al naufragio del 6 novembre 2017 nel Mediterraneo – che ha visto la ONG tedesca SeaWatch impegnata in una operazione di salvataggio ostacolata dalla Guardia costiera libica – sono i ricorrenti presso la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) contro l’Italia nel ricorso presentato questa mattina alla Sala stampa estera a Roma. In quel naufragio hanno perso la vita più di venti persone, tra cui il piccolo Great di due anni, la cui giovane mamma, che figura tra i ricorrenti, è ospite a Scicli (Rg) della Casa delle culture di Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Dei 47 respinti in Libia dalla Guardia costiera libica, che ha agito in coordinamento con la Marina militare italiana – così la ricostruzione dei difensori del ricorso – due sono tra i 17 ricorrenti: dopo essere stati portati in un centro di detenzione libico sono stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, a tortura e a lavoro forzato. Con questo ricorso alla Cedu si intende «non solo dare voce ai sopravvissuti di quella tragedia, ma anche ristabilire la responsabilità politica e giuridica dell’Italia, richiamarla ai suoi obblighi internazionali», ha spiegato Sara Prestianni dell’Arci in apertura della conferenza stampa. Il Global legal action network e l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) sono tra i difensori dei ricorrenti, aiutati anche dal lavoro intitolato mare clausum di oceanografia forense della Forensic Architecture che, grazie ad una ricostruzione video, dimostra l’illiceità dell’azione della Guardia costiera libica in quella operazione di soccorso.
Alla Cedu i difensori hanno depositato un ricorso per la violazione dell’Italia di diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vanno dal diritto alla vita al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, dal diritto ad avere una famiglia al divieto della schiavitù e del lavoro forzato. «Il governo italiano ha incoraggiato la violazione di diritti umani. Non poteva non sapere delle condizioni in cui versano i migranti in Libia e delle conseguenze di questi respingimenti operati dalla Guardia costiera libica», ha detto Loredana Leo, avvocato dell’Asgi, che accusa l’Italia di sostenere direttamente la Guardia costiera libica, che in questo naufragio non ha fatto nulla per evitare morti in mare. Nel corso della conferenza stampa da più parti è emerso come non esista alcuna zona Sar (search&rescue) libica che possa giustificare operazioni di soccorso controllate da una Guardia costiera libica. Inoltre, da Charles Heller (Forensic Architecture) è stata sottolineata la sistematicità con cui avvengono queste violazioni. Luigi Manconi, già senatore della Repubblica, ha ricordato la sorte dei 105 migranti salvati due giorni fa dal veliero Astral della ONG Proactiva, che dopo aver aspettato per 36 ore l’autorizzazione al trasbordo su una nave più adatta, nella fattispecie l’Aquarius della ONG SOS-Mediterranee, sono ora in attesa di conoscere il porto sicuro più vicino in cui scendere, come previsto dal diritto del mare.
A bordo dell’Astral è presente anche un operatore di Fcei-Mediterranean Hope, che in qualità di cuoco si è visto costretto, durante quelle lunghe ore di attesa, al razionamento della cambusa. Manconi, sottolineando come questa volta «la Guardia costiera libica non si sia fatta vedere», e come diventi «sempre più fantasmatica questa “zona libica Sar”, un tratto di mare in cui non sembra esistere legge alcuna”, ha concluso: «Siamo di fronte ad una situazione caotica nella quale a pagare sono in primo luogo le persone più vulnerabili». La portavoce di SeaWatch, Giorgia Linardi, per parte sua, ha ricordato come siano tutti «nella stessa barca: o stiamo fermi e guardiamo, ma ci sentiamo “complici” di assistere a quello che è un respingimento, oppure interveniamo mettendo a rischio il nostro equipaggio. Siamo in una situazione in cui i nostri capitani sono costretti a venire meno al loro obbligo di soccorre, che in un mondo giusto è reato».