La narrativa contemporanea tra orizzontale e verticale
24 aprile 2018
Un atto d'accusa che fa riflettere in un libro di critica letteraria
La nostra incapacità di cogliere, e affrontare, il Male. Un bel libro di critica letteraria*, dai toni a tratti un po’ accusatori (ma senza cadere nella polemica «pamphlettistica» che dura due o tre mesi e sparisce senza lasciare traccia) ma pieno di affetto per le belle lettere, permette a Ferruccio Parazzoli, anomalo romanziere di cultura cattolica, classe 1935, di trovarsi in linea con un dibattito che ricorre anche nelle chiese protestanti italiane, e che non è nuovo nell’arte e nella letteratura. La dialettica fra «orizzontalità» e «verticalità», che l’autore propone in quelli che erano originariamente alcuni articoli scritti per la rivista «Vita e pensiero» fra il 2006 e il 2017, ha un antecedente illustre nel cinema di Ingmar Bergman: la sofferenza per la precarietà dei nostri rapporti interpersonali era (ed è) strettamente connessa con la ricerca di Dio; e, per converso, l’ansia metafisica dei suoi personaggi sarebbe stata pura speculazione astratta se non si fosse innestata nel tronco delle passioni umane.
Che cosa lamenta, dunque, Parazzoli in questa serie di interventi? Detto in estrema sintesi, una certa «leggerezza» della narrativa contemporanea, in particolar modo quella italiana, ormai decisamente orientata a raccontare episodi minimi, significativi per i protagonisti che li vivono in prima persona, ma appiattiti sulla cronaca spicciola. Non che le nostre vite non siano fatte di questi episodi, anzi, ne sono intessute tutti i giorni: ma manca, ormai, la capacità di cogliere dietro le vicissitudini di un impiegato, di una giovane mamma, di una crisi di coppia, gli elementi che possano ricondurre il caso particolare all’umanità di cui siamo fatti: «Nella società contemporanea la cronaca sostituisce la tragedia. La tragedia è contraddizione con il divino, la cronaca è il non-senso dell’esistenza» (p. 99). E ancora: «L’appagante morbosità della cronaca sostituisce la contraddizione sofferta tra realtà e mondo del divino, ignora il carattere tragico dell’esistenza».
E perché mai la sofferenza, la grande sofferenza dovuta alle grandi contraddizioni dell’esistenza non compare più nelle trame di romanzi e racconti contemporanei? «Perché andare in cerca di guai ormai riconosciuti irrisolvibili, o frutto di fantasie colpevolistiche, quando bastano e avanzano i guai e le colpe della vita quotidiana, pubblica o privata, di cui siamo ben consci e di cui ci tengono diligentemente informati giornali e televisioni?» (p. 31). Ecco, le spiegazioni razionalistiche hanno eliminato Dio fra le cause di contraddizione del nostro vivere, questo è innegabile: ma riescono i nostri strumenti (sociologia, psicologia, ora le neuroscienze) a spiegare perché all’improvviso a ognuno o ognuna di noi può capitare di trovarsi sull’orlo di un abisso, di fronte a scelte irrevocabili, a vivere nel senso di colpa?
È stato probabilmente il grande romanzo russo dell’800, Dostoevskij su tutti, che infatti ricorre nelle pagine di Parazzoli, a toccare questi temi, a porre uomini e donne di fronte alle loro responsabilità, e non solo in preda a circostanze occasionali. Ma ancora nel ‘900 ci sono pagine di inaudita profondità nei romanzi e nei testi teatrali di Bernanos che ci ponevano di fronte al carattere estremo di gesti che oggi vediamo come banali (e oggi alcuni autori rilevanti come J. M. Coetzee). Così l’autore intende il rapporto tra orizzontale e verticale: l’orizzonte «... si sposta di continuo, non lo raggiungeremo mai. La linea verticale che, invece, lo interseca che cos’è? È una linea che va verso l’alto, diciamo pure il cielo, ma può andare anche verso il basso, al di sotto, cioè nell’abisso, la vita pullula anche al di sotto» (p. 36). Qui si affaccia «l’uomo del sottosuolo» di Dostoevskij, ma anche l’esasperazione dei sensi di colpa e le inquietudine grottesche di Kafka. Si parla cioè di scelte: i personaggi della narrativa odierna, non solo a Parazzoli ma anche a chi scrive queste note, paiono compiere solo scelte obbligate, lungo il fluido corso degli eventi, senza essere interrogati dalla perentorietà delle decisioni da prendere. E d’altra parte non avviene lo stesso nella politica di oggi? Qualcuno è in grado di esprimere «visioni» di un certo respiro?