Alla fine di ogni frase, Oubada stringe i denti e contrae il viso in una smorfia di dolore, ma ricomincia subito a parlare. Quella che ci racconta mentre sediamo in un salone del complesso del Comitato Paralimpico giordano ad Amman è una storia di consapevolezza, che parte dal rendersi conto di un distacco per certi versi irreversibile: quello dal proprio passato, dal proprio rapporto precedente con il corpo e dal proprio lavoro. Soprattutto, però, è la storia del distacco dal proprio Paese, quella Siria che prima della guerra distava soltanto un paio d’ore d’auto e che oggi sembra più lontana che mai, ma da cui non ci si separa mai di tutto. Oubada è uno dei moltissimi profughi siriani arrivati in Giordania in questi sette anni di guerra: viveva nel distretto di Douma, una delle località più importanti della ghouta orientale, la regione agricola tutto intorno a Damasco a lungo controllata da gruppi ribelli e che oggi, dopo un lungo assedio e moltissime vittime civili, è quasi interamente ritornata in mano alle forze di Assad. Ghouta letteralmente significa “oasi”, ma oggi è un luogo più deserto che mai, che tanti hanno dovuto abbandonare per potersi salvare la vita. Oubada ha perso l’uso delle gambe quando un muro della sua casa gli è crollato addosso dopo un bombardamento e ora si muove su una sedia a rotelle. Arrivato in Giordania nel 2013 attraverso un canale sicuro aperto dal governo di Amman per permettere l’uscita agli invalidi di guerra, pochi giorni fa si è sottoposto a una nuova operazione per tenere sotto controllo gli effetti più drammatici della sua condizione, ma il dolore fisico fa da contraltare a una risolutezza e una determinazione che è evidente quando parla e si racconta, costruendo una storia che è collettiva e non solo individuale.
Dall’inizio della guerra in Siria la Giordania, che ha una popolazione di poco più di 6 milioni di persone, ha accolto ufficialmente oltre 650.000 uomini, donne e bambini che ora si trovano in diverse località, soprattutto nel centro-nord del Paese. In realtà è probabile che la cifra reale sia decisamente superiore. Circa l’80% dei profughi siriani vive oggi in campi informali di dimensione e condizioni molto variabili, mentre oltre 100.000 compongono la popolazione del campo profughi di Za’atari, secondo al mondo per dimensione e diventato in questi anni la quarta città della Giordania, un luogo surreale in cui la corrente elettrica arriva soltanto la sera e che non accetta più nuovi ingressi. Oggi Unhcr stima che oltre il 90% dei rifugiati in Giordania viva sotto la soglia di povertà e che un profugo su quattro sia affetto da qualche forma di disabilità, congenita o causata da bombardamenti e torture.
Con questi numeri e con il protrarsi della crisi, potersi permettere le cure necessarie diventa sempre più difficile. Marta Malaspina, da pochi giorni head of office dell’ong Un Ponte Per… in Giordania, racconta che «chi ha avuto lesioni alla colonna vertebrale ogni anno deve fare tutta una serie di operazioni, perché la spina dorsale continua a crescere». Fino all’inizio di marzo, il governo giordano garantiva la copertura del 100% della spesa di alcune operazioni e servizi medici per i rifugiati siriani, ma oggi tutto è più complicato. «La maggior parte degli interventi – spiega Malaspina – è coperta solo al 20%, mentre il resto va coperto da loro, che pagano quanto gli altri stranieri». L’unica strategia possibile è quella di rivolgersi a organizzazioni di solidarietà internazionale per trovare finanziamenti.
«Il fatto è che riceviamo spesso supporto emergenziale e donazioni, che sono sempre molto apprezzate, e capiamo l’approccio, ma noi abbiamo bisogno di ragionare sulla sostenibilità dell’intervento». A parlare è Nizar, profugo siriano e attivista per i diritti dei rifugiati siriani con disabilità. Arrivato in Giordania nel 2013, in questi anni ha costituito una rete di feriti di guerra paraplegici che cerca di reinserire nella comunità tramite attività sportive, formazione e supporto al lavoro. È proprio qui che la storia di distacco diventa anche una sfida di ricomposizione della propria consapevolezza, del proprio quotidiano e della propria vita.
La nuova vita di Nizar comincia in Giordania nel 2013. All’epoca collaborava come volontario con la JICA, l’Agenzia giapponese per la cooperazione internazionale, ma la sua esperienza come formatore per le persone con disabilità in Siria risale al 1995. «Avevo organizzato una formazione di tre giorni per rifugiati siriani con disabilità – racconta Nizar – ma all’epoca non aveva raccolto troppo interesse. A quel punto ho cambiato i miei piani: ho speso un anno alla ricerca di attivisti, quindi ne ho scelti sette e abbiamo cominciato un percorso di formazione molto ampio, dai bisogni speciali all’educazione legata alla disabilità, dalla riabilitazione allo sport». Proprio lo sport gioca un ruolo fondamentale in questo lavoro di ricostruzione: attraverso l’attività sportiva si ridefinisce il proprio corpo, il proprio rapporto con lo spazio e soprattutto si smette di essere solo delle persone che hanno perso abilità, ma si diventa delle persone che ne hanno altre e che le sanno usare. Almeno una volta alla settimana i rifugiati siriani con disabilità di Amman si ritrovano al centro del Comitato Paralimpico giordano per praticare diverse attività, dal tennistavolo al lancio del peso, attività che permettono di ritrovare la forma fisica e al tempo stesso rappresentano uno strumento per il rilancio delle proprie competenze in senso più ampio. «Non si tratta soltanto di attività sociale – chiarisce Nizar – ma è uno strumento che abbiamo utilizzato per introdurre formazioni su diversi piani, come la manutenzione delle sedie a rotelle oppure il sitting and fitting», un termine che riassume la corretta postura da mantenere sulla sedia a rotelle e varie azioni da compiere per evitare che il proprio corpo subisca ulteriori danni.
Negli anni, questo gruppo di lavoro ha costruito attività stabili e strumenti di lavoro rivolti non solo alla propria comunità: per esempio, nel 2016 è stata pubblicata in collaborazione con la JICA una “guida ai servizi per persone con disabilità”, rivolta principalmente proprio ai rifugiati con disabilità, che hanno le maggiori difficoltà ad accedere a informazioni sui servizi di cui hanno bisogno e che spesso si ritrovano a essere soli e indifesi. Inoltre, sono state costruite competenze sempre più ampie che hanno ottenuto anche certificazioni: per esempio il primo aiuto psicologico a chi si ritrova in una condizione di disabilità, oppure la formazione professionale, qui definita con il termine inglese vocational training, che porta con sé una dimensione di costruzione della persona che la definizione italiana non riesce a veicolare. «Per altre attività stiamo ancora cercando la certificazione – spiega Nizar – e in particolare sula manutenzione delle sedie a rotelle e sul sitting and fitting. Inoltre abbiamo avviato attività di formazione in remoto via Skype per i siriani che stanno in Siria grazie a una rete di attivisti che stanno ancora nel Paese».
Oggi una delle sfide principali è quella di dare continuità a queste attività: molte organizzazioni forniscono per esempio le sedie a rotelle, ma non vanno oltre la distribuzione. Allo stesso modo, molti progetti si limitano a finanziare realtà come questa, ma non partono dal presupposto di renderle sostenibili. «Alcuni ci vedono solo come un progetto da finanziare – spiega Oubada – ma noi cerchiamo sempre organizzazioni che ci supportino e che ragionino sul lavorare insieme. Se le attività sportive vengono sostenute e poi un giorno i finanziamenti finiscono e noi non siamo più capaci di continuare, allora cos’abbiamo costruito? Dobbiamo avere un piano per fare in modo che le nostre attività continuino anche nei periodi di transizione tra i vari finanziamenti». Quando incontriamo il gruppo nel centro del Comitato Paralimpico di Amman sta cominciando proprio uno di questi periodi: il supporto della cooperazione giapponese, che ha sostenuto l’iniziativa negli ultimi due anni, è terminato, e quindi questo è l’ultimo giorno di attività sportiva. Eppure non c’è aria di smobilitazione. In questi anni, infatti, l’attenzione e la consapevolezza dei rifugiati siriani con disabilità è cresciuta e la consapevolezza di questi giovani uomini che da un giorno all’altro si sono trovati a dover ripartire da zero è tale da aver colpito anche realtà. «Uno dei ragazzi – spiega Eleonora Biasi, fino a pochi giorni fa head of office dell’ong Un Ponte Per… in Giordania – in questi anni ha imparato a realizzare business plan, e quindi nei prossimi mesi lavorerà con noi per insegnare agli altri, non solo disabili, a scriverli». Per altri, invece, l’opportunità è quella di trasformare le competenze acquisite, per esempio nella manutenzione delle sedie a rotelle, in un lavoro al servizio della comunità.
Ma tutto questo è solo parte di una fase di passaggio: il piano è quello di tornare un giorno in Siria e diventare formatori per altre persone con disabilità. «Rispetto a quella di altri paesi come la Giordania o il Libano – ci racconta Nizar prima di salutarci – per chi ha problemi di disabilità la situazione in Siria è davvero pessima e inoltre non ci sono formatori professionali. Quindi dobbiamo tornare anche per condividere le nostre storie, che potranno servire da modello per le nuove generazioni». L’obiettivo finale, insomma, è migliorare la situazione della disabilità in Siria, lo stesso luogo per cui molti di loro dicono di voler gareggiare un giorno, coronando il sogno di partecipare alle Paralimpiadi con i colori del proprio Paese.