Salvare vite in un “mare spinato”
14 marzo 2018
Intervista a Francesco Piobbichi, operatore della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) per Mediterranean Hope (Mh) - Programma rifugiati e migranti
Si conclude oggi la missione di due operatori di Mediterranean Hope (Mh) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), imbarcati sul rimorchiatore Open Arms della ONG Proactiva, impegnata in attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Nel corso della missione durata due settimane, in tre diverse operazioni la Open Arms ha messo in sicurezza 206 persone, tra cui un quattordicenne affetto da una grave leucemia. I due operatori, Francesco Piobbichi e Daniele Naso, hanno svolto funzioni diverse: il primo, oltre a partecipare direttamente alle azioni di soccorso, ha curato la comunicazione e aggiunto un capitolo ai suoi “Disegni dalla frontiera” (Claudiana 2018); il secondo si è occupato della cucina e dei servizi annessi. Per tutti e due è stata la prima esperienza di questo genere. A Francesco Piobbichi, che per la Fcei opera anche a Lampedusa e in Libano nel progetto dei “corridoi umanitari”, l’agenzia Nev ha rivolto qualche domanda.
Come è nata la collaborazione tra Mediterranean Hope e Open Arms?
Abbiamo conosciuto Open Arms a Lampedusa, durante gli sbarchi dei profughi. Abbiamo subito stretto con loro un buon rapporto facilitato dal fatto che Riccardo Gatti, loro capitano e capo missione, è italiano. Nel tempo abbiamo continuato a scambiarci informazioni fino a che non si è data l’occasione di una collaborazione concreta.
Che cosa aggiunge questa missione in mare al già impegnativo lavoro di Mh?
Questa missione salva la gente, ha una drammatica concretezza che ci mette di fronte al dramma della fuga via mare. I media si sono stupiti della storia di Allah, il quattordicenne leucemico che ha provato ad attraversare il Mediterraneo su un canotto recuperato nella missione Open Arms con i suoi fratelli più grandi, ma non è un fatto eccezionale. È la prova di che cosa si vive in Libia e in altri paesi da cui si fugge.
Inoltre lavorare con una Ong che da anni fa soccorso in mare con grande serietà e professionalità ci ha permesso di comprendere un ulteriore tassello della dinamica di quella che noi chiamiamo “la frontiera mobile” del Mediterraneo. Siamo operativi in Libano e Marocco e da anni gestiamo l’osservatorio di Lampedusa: avevamo chiaro che cosa c’è prima del viaggio attraverso il Mediterraneo e che cosa c’è dopo. Ora abbiamo capito anche la drammaticità di quello che c’è in mezzo, e anche qui abbiamo cercato di rendere un servizio alla vita, alla sicurezza e alla dignità dei profughi.
Come siete stati accolti a bordo e come avete contribuito alle attività della Open Arms?
Siamo stati accolti con fraternità a subito ci siamo trovati a nostro agio. Daniele è stato un cuoco perfetto e più volte è stato acclamato dai marinai. Io ho raccontato della mia attività di disegnatore e mi hanno chiesto di fare un disegno in sala macchine. A bordo il clima è determinato dall’incontro positivo tra persone che vengono da storie di vita differenti ma che di fronte alla richiesta di salvare delle vite sentono l’impulso ad agire. Mi fa piacere definire questi compagni di viaggio, “pirati di umanità”, ragazzi e ragazze che proteggono la vita in un mare spinato.
Che cosa vi portate a casa da questa esperienza?
Il fatto che abbiamo visto il confine tra la vita e la morte. Abbiamo partecipato a tre salvataggi, due con centinaia di persone che abbiamo trovato dopo ore di ricerca con i motoscafi. Un salvataggio è stato reso difficile dalle condizioni del mare. Dopo l’ultimo intervento, a bordo ho visto persone debilitate e denutrite, alcuni gravemente malati. Una donna ci ha ringraziato dicendoci che l’abbiamo salvata dalla Libia e mi ha detto “God bless you”. Capite? Ci ha ringraziato non solo per averla salvata dal mare ma per averla salvata dalla Libia. Attaccare chi fa soccorso nel Mediterraneo, definirli “tassisti” o accusarli di collusione con gli scafisti è immorale. Senza questa nave, senza questa piccola comunità di individui, Allah, il ragazzino libico che abbiamo trovato di notte in mezzo al mare con la flebo al polso, sarebbe morto. Ci portiamo a casa il suo sorriso e la convinzione che possiamo fare molto per proteggere la vita di chi fugge da guerre e persecuzioni.