Lo scorso 29 novembre tutto il mondo è rimasto a bocca aperta per il suicidio in diretta di Slobodan Praljak, morto dopo aver ingerito del veleno e aver negato le proprie responsabilità. Tuttavia, l’ultima seduta del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, con sede all’Aja, arrivato a fine mandato, sarebbe stata storica anche senza questo gesto. La condanna di sei leader politici e militari croati della Bosnia ed Erzegovina con l’accusa di aver partecipato a un’azione criminale congiunta nel contesto della guerra seguita, negli anni Novanta, alla dissoluzione della Jugoslavia come entità statale, è infatti la conclusione di un processo lungo e complesso. Durato undici anni, contestato, negato e, allo stesso modo dei giudizi precedenti, carico di dolore e di significati non solo giuridici, il giudizio si è basato sui fatti relativi a una specifica parte della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Lo racconta Alfredo Sasso, collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e della rivista East Journal.
Chi erano queste sei persone e come si innestano nel filone dei processi per i crimini nella guerra dei Balcani?
«Erano i vertici politici e militari della cosiddetta Herceg-Bosna, un piccolo Stato autoproclamato e non riconosciuto a livello internazionale all’interno della Bosnia ed Erzegovina e che intendeva tra il 1991 e il 1994 proclamare l’indipendenza e annettersi, in un secondo momento, alla Croazia.
Il primo ministro Jadranko Prlić, che era anche l’imputato principale del processo, è stato condannato a 25 anni di carcere, mentre gli altri quadri hanno ricevuto condanne tra i 10, i 16 e i 20 anni, per un totale di 111 anni complessivi di condanna».
Insomma, sono sono state confermate le condanne del primo grado. Anche questo è rilevante?
«Certo, perché la sentenza ha confermato non solo le pene, ma anche quello che già era stato affermato in primo grado, cioè la responsabilità dei vertici dello Stato croato, di Zagabria, quindi di Franjo Tuđman. Quest’ultimo viene esplicitamente citato nella sentenza come uno dei membri di questa cosiddetta “azione criminale congiunta”, un capo d’imputazione creato dalla giurisprudenza dell’Aja per processare i criminali di guerra che non sono stati sul terreno a operare direttamente i crimini, ma che li hanno elaborati e pianificati dalla distanza. Nello specifico, si afferma che Tuđman ha avuto un ruolo nell’elaborazione di un piano per ripulire etnicamente quella parte di Bosnia ed Erzegovina, in particolare della regione dell’Erzegovina, la regione nel sud dello Stato la cui città principale è Mostar, che è anche la più conosciuta a livello internazionale. Lo scopo era “ripulire etnicamente” dalle popolazioni non croate, quindi i bosgnacchi e anche i serbi, tra l’altro, e annetterla poi in un secondo tempo alla Croazia».
Tra le varie accuse che i critici hanno mosso nei confronti del tribunale dell’Aja c’era quella di un pregiudizio anti-serbo. Le sei condanne verso i vertici croati smentiscono questo impianto?
«Sicuramente questa sentenza smonta un po’ questo pregiudizio che si era sentito anche nella settimana precedente, quando c’era stata la condanna contro Mladic. Allora, molti osservatori e commentatori facevano notare che la maggior parte delle condanne erano a danno dei serbi, senza però precisare che, piaccia o no, la Republika Srpska sia in Bosnia-Erzegovina sia in Croazia è stata coinvolta nella maggior parte dei conflitti e quindi purtroppo era inevitabile che fosse anche più esposta da un punto di vista giuridico».
In qualche modo questa sentenza, che chiude tra l’altro il mandato dell’ICTY, fa sì che il mandato si possa giudicare equlibrato?
«Questa sentenza rimette le cose a posto anche da un punto di vista internazionale. Il conflitto croato-musulmano si svolge in un periodo relativamente breve, cioè solo durante un anno della guerra, nel 1993, mentre la guerra bosniaca ne dura quattro. Questo fa sì che sia stato un conflitto più breve nel tempo e anche più circoscritto a livello territoriale, ma di conseguenza meno conosciuto anche a livello internazionale, al netto dell’episodio forse più noto, che è la distruzione del ponte di Mostar, tra l’altro uno degli oggetti della condanna ai danni del sestetto.
Possiamo dire che la sentenza metta le cose a posto e ridimensioni anche quell’atteggiamento, da parte dello Stato croato, di rivendicazione di un ruolo nei confronti della Bosnia-Erzegovina. Da parte di Zagabria c’è un’insistenza ad autoaffermarsi come una specie di protettore della Bosnia ed Erzegovina con dei toni quasi paternalistici e allo stesso tempo sostenendo in modo sempre più aggressivo, soprattutto negli ultimi anni, la minoranza croata nel Paese. Ecco, questo atteggiamento viene ridimensionato e potrebbe portare a dei cambiamenti anche politici nei rapporti tra i due Paesi in futuro».
Mi soffermerei ora sul suicidio di Slobodan Praljak. I condannati anni avevano già trascorso 12 anni in carcere, quindi Praljak, condannato a 20 anni, sarebbe uscito di lì a poco. Quindi c’è una dimensione simbolica fortissima nel gesto estremo in diretta TV bevendo del veleno. Che cosa ha voluto dire?
«Praljak sarebbe uscito dal carcere entro pochi mesi per via della prassi dell’Aja per cui si scontano due terzi della pena e tendenzialmente, se c’è buona condotta, si esce. Alla luce di questo, direi che è stato un gesto di forte affermazione individuale. Tra l’altro rifletterei sul fatto che nel suo brevissimo intervento prima di bere il veleno curiosamente ha parlato di sé in terza persona e, altrettanto curiosamente, non ha fatto nessun riferimento alla propria patria, non ha fatto riferimento alla Croazia, ha semplicemente detto “Slobodan Praljak non è un criminale di guerra, rifiuto con disprezzo il vostro giudizio” e poi ha compiuto l’azione che tutti abbiamo visto e che è andata in mondovisione. È stato un gesto di forte affermazione individuale da parte di un personaggio molto eccentrico: sono uscite anche diverse biografie in questi giorni di questo suo passato di intellettuale, non di primissimo piano magari, ma pur sempre con dei ruoli nel teatro, nella televisione; è stato sceneggiatore, scrittore, eccetera».
È un profilo che per certi versi ricorda quello di Radovan Karadžić, presidente della Republika Srpska dal 1992 al 1996, giusto?
«Sì, certo. A questo proposito aggiungo un aneddoto che li collega: pare infatti che i due fossero diventati amici negli ultimi anni all’Aja e pare che Karadžić abbia preso molto male la notizia, almeno secondo quanto riporta suo figlio, Luka. Questo tra l’altro fa riflettere sulla facilità che questi personaggi hanno poi di legare tra di loro: c’è una lunga aneddotica sui rapporti di amicizia tra le persone imputate e poi condannate all’Aja anche delle parti opposte. Anche Karadžić era un intellettuale, non propriamente di primo piano, che veniva da fuori città, quindi anche con un livello di rivalsa verso quel mondo urbano che l’aveva allo stesso tempo accolto e però mai considerato appieno come uno dei suoi. Allo stesso modo, Praljak era nato in Erzegovina, a Čapljina, vicino a Mostar, figlio tra l’altro di un ufficiale dei servizi di sicurezza e quindi cresciuto in un territorio tradizionalmente molto conservatore e legato anche in qualche modo all’esperienza ustascia della seconda guerra mondiale, quindi dei fascisti croati, una regione con scontri molto forti tra fascisti e partigiani e che ha vissuto nel dopoguerra una specie di fardello per questa eredità conservatrice e un certo aspetto di rivalsa. Si dice proprio che Praljak abbia anche personalmente sofferto di questa eredità».