Si conclude oggi il ciclo di articoli che Riforma ha dedicato all’analisi dei fatti che nel novembre del 1917 diedero un nuovo corso alla storia. Oggi è il turno del professore emerito di Storia dell’università di Torino Aldo Agosti.
Qui invece l’elenco degli articoli usciti sul tema in questi giorni, buona lettura:
Luigi Sandri su rivoluzione e chiese ortodosse e protestanti
La situazione delle chiese battiste in Russia dopo il 1917
La professoressa della Sapienza Laura Ronchi sul rinnovato interesse russo per il protestantesimo e le religioni
I giornali valdesi dell’epoca e le cronache della rivoluzione
Marco Rostan sul 1967, 50 anni dopo e le polemiche nel mondo valdese per un numero speciale di Gioventù evangelica dedicato alla Rivoluzione d’ottobre
Le incredibili vicende dei profughi russi ospitati in val Pellice dalla Chiesa valdese
Si racconta che quando fu chiesto nel 1972 a Chou Enlai quale fosse il bilancio della rivoluzione francese egli abbia risposto che era ancora troppo presto per dirlo. In un certo senso, questo è vero sempre per i grandi eventi storici, perché la nostra comprensione di essi continua a modificarsi nel tempo, influenzata dalle circostanze e dal clima culturale in cui viviamo. Nel bicentenario della Rivoluzione francese, François Furet sentenziò che la “la rivoluzione era finita”, eppure proprio intorno a quell’affermazione si sviluppò un acceso dibattito che non era solo storiografico ma politico.
La Rivoluzione d’ottobre è una delle date periodizzanti del Novecento, quello che Eric Hobsbawm, nel suo notissimo libro uscito nel 1994, ha chiamato “il secolo breve”. Le sue ripercussioni, egli giudicava allora, erano state «assai più profonde e universali» di quelle della sua antenata, la Rivoluzione francese: «Appena trenta o quarant’anni dopo l’arrivo di Lenin alla stazione Finlandia di Pietrogrado, un terzo del genere umano si trovò a vivere direttamente sotto regimi direttamente derivati dai “dieci giorni che sconvolsero il mondo” e costruiti secondo il modello organizzativo del partito comunista che Lenin aveva creato», affermava il grande storico inglese citando il titolo di un altro celebre libro, quello del giornalista americano John Reed.
A più di vent’anni da allora, l’impatto geopolitico di quell’evento appare meno impressionante. Con il crollo dell’Unione sovietica e dei regimi dell’Europa orientale nel 1989-1991, il numero degli Stati dichiaratamente comunisti si è ridotto a cinque nel mondo (Cina, Corea del Nord, Vietnam, Laos e Cuba) e di questi solo la Corea del Nord appare rigidamente fossilizzata nei dogmi dell’ortodossia “marxista-leninista”, in realtà essi stessi piegati agli interessi di una dittatura personale.
Quando si celebrava il cinquantenario della Rivoluzione d’ottobre, e ancora sicuramente dieci anni dopo, gli studiosi – da qualunque parte stessero - credevano di avere un’idea chiara di quell’evento, o almeno sapevano quali erano le opzioni interpretative in campo.
Il centenario del 2017 coglie invece gli studiosi e la stessa Russia post-sovietica un po’ spiazzati, e nessuno sa più esattamente come valutare il posto della rivoluzione nella storia russa e il suo impatto in quella del mondo. Finita la Guerra fredda nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e privi della mappa mentale che essa forniva, la discussioni degli storici occidentali sulla rivoluzione russa hanno perso molto della loro rilevanza. I russi e il governo di Putin si trovano in una situazione anche più confusa, perché sono obbligati a celebrare il centenario senza avere deciso se la rivoluzione d’ottobre sia stata una buona o una cattiva cosa e mantengono un rapporto ambiguo con il loro passato.
Dopo il 1989 la percezione dell’Ottobre sovietico è cambiata, tanto tra gli storici quanto al livello del senso comune: e non tanto per l’apertura degli archivi, quanto per un mutamento dell’atmosfera culturale e politica i cui effetti sono forse non imparagonabili a quelli del mutamento climatico ormai inequivocabilmente sotto gli occhi di tutti.
Il 1917 è stato spesso visto come l’inizio di un ciclo di violenze che ha portato agli orrori dello stalinismo, o perfino come uno spartiacque che ha segnato una massiccia espansione di pratiche di violenza ad opera dello Stato nell’intero continente europeo, con l’ambizione di riplasmare il corpo sociale e di rimuoverne specifici gruppi percepiti come socialmente o politicamente pericolosi. In quale misura la violenza e la coercizione fossero innate allo spirito originale del bolscevismo, e in quale misura invece un’eredità della Russia tardo-imperiale, è una questione in realtà tuttora dibattuta. Così pure, fa ancora discutere la questione della continuità o discontinuità tra bolscevismo e stalinismo. La continuità è stata fondamentale o secondaria nell’evoluzione del sistema politico sovietico, rispettivamente negli anni ‘20 e negli anni ’30? Queste domande, però, non appassionano più come un tempo l’opinione pubblica e la stessa comunità degli storici.
La pletora di convegni che accompagnano il centenario è forse più il riflesso condizionato che scatta in occasione degli anniversari che il segno della consapevolezza che la Rivoluzione russa sia ancora un tema rilevante, o che importi a qualcuno oltre a chi si dedichi professionalmente al suo studio.
Oggi, quando la nozione stessa di rivoluzione come trasformazione radicale sembra aver perso senso e legittimità, è giusto riconoscere che l’Ottobre del 1917 fu certamente uno degli elementi scatenanti di quella che lo storico Orlando Figes ha chiamato la “tragedia di un popolo”, costellata di orrori ma anche di eroismi; ma è anche quanto mai necessario non dimenticare che se alla fine del 1920 i bolscevichi vinsero una sfida che sembrava impossibile fu prima di tutto perché riuscirono a conquistare la maggioranza della popolazione a una prospettiva di emancipazione e di egualitarismo tra i ceti urbani e in una qualche misura persino nelle campagne: in una parola, a convincere milioni di persone che un altro mondo, e migliore, era possibile.