Nel corso dell’autunno sono stata invitata a partecipare al “Peacemaking Program” della Chiesa presbiteriana americana, un viaggio impegnativo che mi ha portato a visitare chiese, comunità, università in diverse città in sei stati degli Usa. Da Los Angeles a Grand Rapids, da Huntsville a Galena e Crystal Lake vicino a Chicago, da Louisville a New York: realtà diversissime tra loro ma tutte interessate ad ascoltare la mia esperienza e l’opera di testimonianza delle nostre chiese, in particolare su due temi di attualità: famiglie e corridoi umanitari. Come cioè riflettere sulla diversità culturale e religiosa consenta di immaginare un’alternativa ai populismi e alle politiche dell’accoglienza sempre troppo calate nel breve periodo, considerando invece una diversa narrazione di inclusione, di impegno civile e religioso, al servizio degli altri. Ma come uscire dal corto circuito della rappresentazione noi-altri che rischia di accentuare le differenze? Costruendo ponti che permettono a un crescente pluralismo di esprimersi nelle diverse forme: nei tantissimi incontri, più di trenta, ho potuto verificare quanto importante sia anche per la società americana dialogare su questi temi in modo aperto e critico. Sono problemi che condividiamo sulle due sponde dell’oceano e gli incontri hanno permesso di trovare i modi per riflettere, documentarsi e impegnarsi a favore dell’inclusione della diversità. La diversità culturale è una relazione di apertura e di curiosità verso gli altri, non semplice aggregazione delle differenze, è la scoperta di una comune umanità solidale e sorretta da comunità di preghiera.
Sono grata e riconoscente al Signore per questo tempo e per queste opportunità di scambio e di relazione e per la calorosa accoglienza.
L’invito a tutti e a tutte è stato di venire a visitarci, per scoprire la nostra piccola realtà di minoranza protestante, per conoscere le nostre chiese e realtà di frontiera, per incontrare gli operatori e le operatrici di “Mediterranean Hope” e le storie dei profughi che continueranno ad arrivare e di cui ho estensivamente parlato anche grazie all’ausilio di due video girati da Rbe.
Nel corso del viaggio ho potuto condividere il “Lampedusa statement” sottoscritto il 3 ottobre dalle chiese a livello internazionale. Anche la rivista “Horizon” delle donne presbiteriane dedicherà il numero autunnale al tema dei rifugiati. Sono molti i segnali della reazione alle politiche di chiusura da parte di diversi settori della società americana, donne e uomini che tentano di opporsi e resistere nel quotidiano: nelle biblioteche, nelle università, nei musei e nei festival culturali era evidente il tentativo di denuncia delle politiche di chiusura e di rifiuto dei migranti o di chi è diverso, perché -come spesso è emerso nelle conversazioni - la diversità è costitutiva di questo Paese.
Dal livello delle chiese locali e della società civile ho anche potuto incontrare membri degli esecutivi e rappresentanti alle Nazioni Unite.
Dal titolo generale “Trasformare le culture della violenza in comunità di pace”, il programma era infatti iniziato il 20 settembre con l’insediamento dei quindici “international peacemakers” durante un culto molto partecipato nella sede centrale della Chiesa presbiteriana a Louisville in Kentucky. Il 21 settembre è la Giornata internazionale della pace stabilita nel 1981 dalle Nazioni Unite e in quei giorni era in corso l’Assemblea generale a New York con la parola chiave “Insieme” indirizzata agli sforzi per cambiare gli stereotipi e i pregiudizi, per rafforzare l’inclusione e per trasformare la paura in speranza. Di questo ho parlato estensivamente nei miei incontri, anche al termine del mio viaggio a New York City, nel seminario “Love Welcome” promosso dalla First Presbyterian Church sulla Quinta strada, per affrontare il tema delle discriminazioni cui vanno incontro rifugiati e persone Lgbti. Ho potuto parlare con i rappresentanti presbiteriani alle Nazioni Unite, raccontando del percorso di discussione che le nostre chiese stanno facendo sul documento famiglie e segnalando il documento di Lampedusa.
Vi è una diffusa preoccupazione per il clima generale di rifiuto e di chiusura, di crescente discriminazione ma vi è la forte determinazione a perseverare nelle azioni di reciproca accoglienza: “la pace sempre e in ogni maniera” (2 Tessalonicesi 3), è il versetto del programma.