La diocesi di Pinerolo , ha il suo nuovo vescovo. Derio Olivero, 56 anni, è stato insediato il 18 ottobre, una settimana dopo l’ordinazione ricevuta a Fossano, dove da alcuni anni era vicario generale. Lo abbiamo incontrato alcuni giorni dopo, per chiarirci con lui, già docente di Teologia pastorale e autore di diverse pubblicazioni, quali siano le difficoltà delle Chiese (tutte) nel rivolgersi alla società e alla cultura di oggi.
Sugli stampati delle due cerimonie (ordinazione e insediamento), lei ha fatto riprodurre due frasi di Dietrich Bonhoeffer: perché?
«La Chiesa cattolica ha avuto una grande storia, dal ‘500 fino al Concilio Vaticano II, che si basava su una forte istituzione; su una sana dottrina; e su una retta moralità, ma il mondo è cambiato e oggi la dottrina di per sé è diventata muta, vuota, astratta: abbiamo bisogno di esistenza che parli, la testimonianza parla più della dottrina. La riflessione è fondamentale ma, mentre la teologia è progredita, la dottrina cattolica è rimasta molto “catechistica”, e dunque formale e astratta. Noi dobbiamo uscire da quel formale e astratto, e una strada è quella della testimonianza, di cui è esempio papa Francesco. Ciò non significa negare la dottrina, ma fermarsi a dottrina e legge morale significa dividere gli esseri tra chi è dentro e chi fuori, e oggi non è tempo per dividere. Una delle questioni più serie è riscoprire la valenza antropologica della fede: non abbiamo più parole per dire quale potenza vitale ha il cristianesimo, quali parole concrete ha rispetto alla vita. Per dire la valenza antropologica della fede: non basta dire, come una formula, Gesù ti ha salvato, Gesù è risorto; bisogna saper spiegare la potenza della risurrezione».
Perché il mondo a cui le Chiese si rivolgono è così indifferente?
«Il filosofo Charles Taylor, [L’età secolare, Feltrinelli, 2009, ndr] descrive l’uomo che un tempo era “poroso”, e oggi è “schermato”, dotato di uno schermo che gli impedisce qualsiasi uscita da sé; per lui esiste solo l’umano, misurabile, pesabile e che si veda; non esiste altro. In questo contesto continuare a parlare di Dio come siamo abituati equivale a dire una formula magica. Allora, come incidere? L’altro aspetto di cui si deve tener conto è che non c’è più desiderio: siamo pieni di bisogni, ma privi di desideri – come sostiene lo psicoanalista Massimo Recalcati sulla scorta di Lacan –: desiderare è attendere qualcosa che non avrai mai (o mai del tutto); ci concepiamo oggi come un pozzo senza fondo che deve essere riempito, questo è il bisogno, ma l’uomo è apertura a qualcosa di più grande di sé da perseguire e che magari non si raggiungerà mai compiutamente, una tensione...».
La traduzione e lo studio della Bibbia avvicinano i cristiani delle diverse confessioni; più difficile sembra il dialogo sulla visione dell’antropologia e della natura: è ancora così?
«Sicuramente c’è un maggiore pessimismo antropologico in campo protestante e un certo ottimismo in sede cattolica, e questa distinzione si fonda sulla struttura di ognuna delle due famiglie confessionali. Però ci si potrebbe avvicinare molto ragionando sull’importanza della categoria della storia: la storia non è un accidente dell’essere, ma è l’evento dell’essere. Nel descrivere l’umano nella sua storia, proprio lì dobbiamo cogliere che cosa è l’umano nella sua fenomenologia, e questo ci potrebbe accomunare, prescindendo dalla diverse impostazioni strutturali».
In effetti Dio ha scelto un popolo per situare nella storia il suo rapporto con l’umanità...
«Certo, e il fatto che poi un uomo, Gesù Cristo, rappresenti l’universale portando con sé la divinità del Padre, è un bel modo per dire che in ogni evento storico si dà la verità: l’evento storico non è un dettaglio e la verità in ognuno di noi non è un concetto astratto, si dà nella realtà storica. Non si deve però leggere la chiesa solo come istituzione sociale ma come una istituzione che ha come compito mantenere viva l’apertura dell’umano. Non si vive di solo pane, come dice il Vangelo; e invece noi cattolici per molte ragioni facciamo fatica a essere pionieri dell’apertura dell’umano, presi molto dall’organizzazione e dalla catechetica, e non sempre riusciamo a essere pazienti cultori dell’apertura che sta in ogni uomo, perché il desiderio di infinito non ci abbandoni. Si dovrebbe anche riscoprire il senso del rito, oggi in crisi: perché oggi conta ciò che è utile e quantificabile, performante. Nel rito non si fa niente ed è quello il pregio, è il momento in cui non fai niente e non impari niente; stai, gratuitamente, e puoi stare in creando uno spazio per la presenza di Dio. Altrimenti Dio diventa un’idea». Sul sito www.chiesavaldese.it potete trovare un’intervista video al vescovo Olivero.