«Dopo una ingiusta e triste detenzione sono tornato a casa. Grazie a tutti per le preghiere e il supporto. In piedi per il nostro bellissimo Zimbabwe. Sicuramente come è vero che il sole sorge ogni giorno, allora questa stagione prima o poi finirà». Sono parole scritte direttamente dal pastore battista Evan Mawarire e affidate ai canali social, a pochi minuti dalla sua liberazione dopo 3 giorni di detenzione nelle celle della capitale Harare, a seguito dell’ennesimo arresto cui è stato sottoposto, da quando è diventato uno dei portavoce delle campagne contro il dittatore del paese Robert Mugabe. Il pastore, iniziatore della campagna #ThisFlag “Questa bandiera” era stato arrestato domenica scorsa addirittura in chiesa durante il culto, con l’accusa di attività eversive ai danni del governo.
Il motivo del rilascio è purtroppo più legato a errate questioni procedurali che ad una reale motivazione politica che ponga la libertà di espressione a caposaldo di una democrazia, ma il giudice non ha comunque mancato di criticare le forze di polizia per la gestione della vicenda.
In sostanza, secondo le leggi dello Zimbabwe non possono trascorrere più di 48 ore dal momento di un arresto preventivo a quello della presentazione delle accuse di cui il soggetto deve rispondere. Ma il pastore è finito davanti al giudice 72 ore dopo il suo fermo. 72 ore in cui è rimasto nelle mani delle forze di polizia senza che venisse ufficialmente presentata la richiesta di carcerazione. Da qui l’inevitabile scarcerazione di uno dei più fieri oppositori al regime che da quasi 40 anni sta riducendo alla fame un’intera nazione.
Mawarire, 40 anni, era stato fermato a pochi giorni dalla pubblicazione sui social media di un video in cui protestava contro il governo per l’ulteriore peggioramento della devastante crisi economica che sta strozzando il paese. Si tratta dell’ultimo di una serie di arresti che lo hanno coinvolto. La moglie e i tre figli sono già stati trasferiti negli Stati Uniti, dopo le minacce ricevute. La stessa ambasciata americana in Zimbabwe aveva nei giorni scorsi redatto un comunicato in cui si condannava «l’arbitrario arresto e le intimidazioni ricevute dal pastore Mawarire» e si ribadiva l’impegno statunitense per «la libertà di espressione e il diritto a riunirsi in maniera pacifica. Chiediamo al governo dello Zimbabwe di rispettare e proteggere i diritti umani di tutte le persone del paese».
Parole che il vecchio dittatore e il suo entourage non vogliono cogliere. Lunedì nelle strade della capitale si è svolta una manifestazione di sostegno a Mugabe, durante il quale il presidente ha affermato che sono presenti nel paese individui che cospirano contro di lui e contro il bene della nazione. Un chiaro riferimento a Mawarire e ai suoi sostenitori. La battaglie per la libertà è lontana dall’essere conclusa. L’avvocato del pastore, Harrison Nkomo, ha dichiarato alla stampa di non poter «ritenersi felice. Non dovevamo essere qui a parlare di queste cose. Si tratta di accuse assurde, di una pericolosa piega repressiva in atto». Nelle prossime ore il pastore dovrà comunque comparire davanti ai giudici per rispondere di precedenti incriminazioni sempre legate all’attentato alla vita del paese. La battaglia non è certo finita.