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Controlli, restrizioni, multe, taglio degli aiuti che arrivano dall’estero. La Cina vara il nuovo regolamento sulle religioni che rappresenta un ulteriore giro di vite nell’opera di controllo che lo Stato vuole esercitare sui suoi cittadini, nel tentativo scomposto di arginare una realtà che sfugge ai diktat del governo. O almeno ci prova dato che non è semplice ottenere dati ufficiali sulla partecipazione del miliardo e trecento milioni di cinesi alla vita delle locali comunità religiose, alcune ufficialmente riconosciute dallo Stato e altre cosiddette “sotterranee” perché a questo riconoscimento e ai relativi asfissianti controlli ad esso legato vorrebbero sottrarsi. Al prezzo di repressioni e arresti.

Il Deus ex machina di questa operazione è il dipartimento per gli affari religiosi, cui spetta il compito di verificare ad ogni livello – villaggio, contea, provincia – che le organizzazioni e i loro membri non intralcino, o peggio attentino, all’unità del paese, magari sobillati e finanziati da potenze straniere. Una fobia ma anche un pretesto per metter il cappio a molte realtà che possono pensare di sopravvivere soprattutto grazie all’aiuto proveniente da oltre confine, dato che in Cina le chiese non possono avviare campagna di raccolta fondi. Come non possono fare molte altre cose: è infatti proibito il proselitismo ad ogni livello, compreso via etere, con una stretta sul mondo web.

Ma non solo costruire nuovi luoghi di culto – dopo la campagna di distruzione delle croci  – diventerà pressoché impossibile a causa di una complessa serie di autorizzazioni e atti necessari. Stesso discorso per le scuole. La burocrazia al servizio dello status quo. I funzionari locali della mastodontica macchina statale cinese sono chiamati a controllare la attività dei fedeli presenti nel territorio di competenza con tutti i mezzi che verranno ritenuti necessari. Il testo sottolinea a più riprese il rischio di infiltrazioni dall’estero che non farebbero altro che introdurre pericolosi estremismi nel paese. Tutto ciò riguarda le comunità ufficialmente riconosciute. Per quelle “sotterranee” sarà caccia aperta. Nessuna attività svolta in luoghi non registrati e con personale a sua volta non facente parte delle liste degli autorizzati sarà permessa. Le pene previste per i trasgressori sono salatissime (fino a 300 mila yuan per attività non autorizzate a fronte di uno stipendio medio mensile a Shangai di circa 2300 yuan).

Wang Zuoan, direttore dell’amministrazione per gli affari religiosi ha raccontato in un articolo come «il nuovo regolamento si sia reso necessario perché di giorno in giorno si intensifica l’infiltrazione in Cina di stranieri che usano la religione per diffondere estremismi e alimentare violenze nel paese».

Da anni è in corso il tentativo di “sinicizzare” le religioni, renderle cioè coerenti con il messaggio e i dettami del governo . Lo scorso anno il presidente Xi Jinping aveva richiamato i funzionari interessati ad adoperarsi perché le religioni ufficialmente riconosciute adattassero il loro credo alla realtà socialista, plasmandola su essa. Lo spauracchio resta l’infiltrazione straniera nel paese, tanto che è vietato qualsivoglia invito ad un ospite non cinese nei monasteri o nei seminari. Isolare e tagliare alla fonte le fonti di sostentamento, in questo modo il partito e il governo contano di obbligare i restii a porsi sotto il cappello protettivo dello Stato. La scusa della lotta al terrorismo, già utilizzata con triste successo in Tibet, è lo slogan con cui Pechino vuol fare accettare in patria e nel mondo la necessità di controllare passo passo ogni atto dei membri di chiese. Ma il risveglio religioso del paese difficilmente sarà arginabile.

Immagine: Di AlexHe34 - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10649736

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