I vertici di Roma e Parigi di lunedì 28 agosto hanno portato con sé una serie di indicazioni su quello che sarà il futuro prossimo dell’approccio europeo alle migrazioni dall’Africa. La tendenza generale, quella di spostare sempre più a sud la frontiera meridionale dell’Europa, è in realtà composta da numerose parti differenti. Tra queste, spicca sicuramente la strategia di aprire in Ciad, Libia e Niger dei centri di accoglienza con sportelli gestiti da Unhcr e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, strutture basate sul modello del centro inaugurato nel 2014 ad Agadez, nel cuore del Niger, uno tra i nodi più importanti delle migrazioni contemporanee. Eppure, anche se preso a modello, del centro di Agadez e in generale di quel che succede in quella città si sa poco. Luca Iotti, presidente dell’Ong Bambini nel Deserto, organizzazione umanitaria che si occupa di sensibilizzazione e di creazione di sviluppo nei Paesi dell’Africa sahariana e subsahariana, racconta che «l’ultima volta che ho avuto l’occasione di stare in prima persona ad Agadez, purtroppo ormai alcuni anni fa, il centro era in costruzione. Si trattava di un immenso recinto, con all’interno dei prefabbricati, adiacente all’aeroporto della città, lungo la strada che porta verso est. Attraverso i contatti che abbiamo con amici e collaboratori ad Agadez, sappiamo che il centro attualmente è in funzione ed è un centro in cui i migranti possono trovare alloggio e condizioni igieniche tutto sommato migliori rispetto a quelle dei ghetti, che sono i quartieri dove, a seconda del Paese di provenienza del migrante, si alloggia nell’attesa che un veicolo parta verso la Libia. Nonostante la presenza del centro, i ghetti continuano a esistere».
Insieme ai ghetti, esiste ancora il traffico di esseri umani. È cambiato qualcosa dall’apertura di questo centro?
«Il traffico ovviamente non è interrotto, ma mentre prima avveniva alla luce del sole sotto il posto di controllo della polizia di uscita di Dirkou, attualmente le carovane continuano a partire utilizzando dei piccoli pickup 4x4 guidati da ragazzi nigerini che non hanno altra possibilità di occupazione. Ecco, questo è un altro problema: la migrazione dà vita a un mercato sommerso lungo la sua strada, dal venditore di taniche a quello che ti alloggia, da quello che ti dà da mangiare a quello che ti procura il lavoretto, da quello che ti vende l’acqua per partire fino ad arrivare a quello che ti accompagna o si auspica di poterti portare quanto più all’interno possibile della Libia».
Il Niger rimane uno snodo decisivo per le migrazioni africane verso l’Europa?
«Sì, il Niger attualmente è il principale hub di passaggio dei migranti subsahariani provenienti dall’Africa occidentale, principalmente Senegal, Gambia, Guinea, Burkina Faso, Mali. I nigerini invece per esempio migrano pochissimo, al contrario dei nigeriani, che invece arrivano ad Agadez dal passaggio di Zinder».
Rimane una domanda che non può essere evitata, perché è la più delicata: come si pensa di garantire condizioni migliori alle persone che arrivano in questi centri?
«Il presidente francese Macron ha affermato di poter garantire un trattamento umanitario all’altezza delle nostre aspettative e che lo scopo dei campi sarà quello di selezionare i migranti dividendoli tra economici e quanti invece hanno diritto di presentare domanda di asilo e che l’identificazione degli aventi diritto avverrà su liste chiuse dell’Unhcr. Ora, già sulle liste ci si deve porre un problema: è vero che nessuno può svolgere questo lavoro meglio dell’Unhcr, però i migranti economici chi sono? Su questo bisogna porre l’attenzione: una persona che ha perduto tutto, un contadino che ha perduto la propria terra a causa dei cambiamenti climatici, oppure di politiche di governo bizzarre e di scarso supporto a quella che è la spina dorsale dell’Africa occidentale, cioè l’agricoltura, è un migrante economico, però come lo trattiamo?»
Oltre all’apertura di nuovi centri di accoglienza, quali tipi di risposte sono state offerte da Roma e Parigi per ripensare alle migrazioni?
«Prima di tutto è stato detto che si prevede di addestrare il personale di due Paesi africani, Ciad e Niger, per arrivare a costituire una guardia di confine lungo la frontiera con la Libia, quindi un intervento di carattere militare. Si è parlato anche del rafforzamento della guardia costiera a Tripoli, anche qui stiamo sempre parlando di attività di carattere militare. Poi si prevede il trasferimento dalle carceri libiche, da quei macelli che si trovano in Libia, direttamente dei paesi di origine dei migranti; il problema è che né Niger né Ciad hanno delle rappresentanze diplomatiche a Tripoli in grado di identificare i propri cittadini per agevolarne il rientro. Tra l’altro a proposito del rientro, bisognerebbe anche parlarne, perché è già successo che le persone da rimpatriare venissero caricate dentro dei camion e attraversassero il deserto in quelle condizioni.
Infine, si è parlato di un sostegno economico ai paesi di transito, Ciad e Niger, perché si adoperino nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Macron ha spiegato che l’Unione europea garantirà dotazioni economiche, di personale e tecniche, per controllare i confini terrestri e fornire addestramento del personale. Insomma, si tratta sempre di obiettivi a breve termine».
Tornando ai campi, oltre all’idea di aprirne di nuovi c’è dell’altro?
«Il fatto che nella gestione dei campi di identificazione si coinvolgano Unhcr e Oim può aiutare nel far sì che in questi luoghi non si passino soltanto dei documenti, ma si trasformino in spazi di formazione e sensibilizzazione su vari temi. Tra questi, bisognerebbe concentrarsi non solo sul tema della migrazione, ma anche parlare di coltivazione, di energie, di microcredito, di impresa. Tuttavia, non dimentichiamoci che non possiamo solo disincentivare alla migrazione, perché queste persone che mollano tutto e mettono a repentaglio la loro vita per migliorarla, ma soprattutto per migliorare quella delle loro famiglie, sono degli eroi».
C’è però un altro punto del quale si è discusso e che sulla carta ha un respiro molto più ampio, ed è quello dei finanziamenti destinati allo sviluppo nei Paesi di origine e transito. È una strada percorribile?
«Questa voce bisognerebbe declinarla un po’ meglio, perché bisogna vedere come saranno spesi questi fondi destinati ai progetti di sviluppo, che sono sicuramente la strada prioritaria nel contrasto ai futuri flussi. Il fatto però è che ci sono gli attuali movimenti di persone che vanno a loro volta gestiti. A mio parere l’Italia si sta muovendo bene, innanzitutto con l’accordo fatto con i sindaci libici su delle attività di costruzione di strutture fondamentali come scuole e strutture sanitarie. Purtroppo non se ne sente mai parlare, ma la cooperazione sta lavorando bene come forse non ha mai fatto».
In questo quadro, la cooperazione istituzionale italiana considera le realtà già presenti sul territorio, penso proprio a Bambini nel Deserto, come figure a cui fare riferimento per lavorare sullo sviluppo?
«Assolutamente sì. Per esempio, in Burkina Faso lavoriamo in una regione da cui provengono il 90% dei burkinabé in Italia e che in gran parte lavorano nel nord Italia tra Brescia, Bergamo e Treviso, che è la zona di Garango, abitata da un’etnia che sono i Bissa. Ecco, lì abbiamo lavorato prima con attività di sensibilizzazione con il Cinéma du Desert e poi quest’anno in particolare su un progetto portato avanti direttamente da Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Abbiamo fatto attività di sensibilizzazione con il Cinema Arena e attualmente siamo al lavoro con Oim proprio su una strategia alternativa alla migrazione attraverso un intervento agricolo mirato a per mitigare un cambiamento climatico che ha portato il fiume Nakambe a invadere ogni anno sempre di più i territori di agricoltori che senza speranze sono costretti a migrare. Penso sia proprio su questo che bisogna lavorare: mitigazione dei cambiamenti climatici e intervento sul terreno per fornire alternative, nuove energie, nuove strategie, nuovi sistemi di lotta alla desertificazione e spendere soldi realmente sul terreno senza passaggi farraginosi attraverso strutture di Paesi che purtroppo sono sempre sull’orlo di un potenziale collasso».
In generale, con i dovuti correttivi, il piano emerso lunedì 28 può funzionare?
«Ho molta speranza in questi ultimi atti, anche se usciamo da un periodo molto mosso per i colleghi di Ong impegnate in un lavoro straordinario in mezzo al mare. Purtroppo si è trascinato tutto il nostro mondo nel sospetto e nelle accuse di connivenza con i trafficanti. Ho fiducia in questa manovra anche perché vedo che c’è una forte impronta italiana e mi fa piacere che il nostro Paese si faccia sentire nell’Africa subsahariana. Ricordiamo che a livello di cooperazione siamo i più attivi e i più apprezzati, molto più dei tedeschi, dei francesi, dei belgi e dei canadesi, per esempio. Gli africani amano lavorare con le organizzazioni italiane e noi dobbiamo cogliere questa occasione per permettere davvero il miglioramento delle condizioni di vita».