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Fa impressione tornare in Italia dopo la “più grande iniziativa di ex muslims e laici della storia per rendere omaggio al dissenso e difendere apostasia, blasfemia e laicità” (così l’attivista e intellettuale Maryam Namazia ha definito la Secular Conference tenutasi dal 22 al 24 luglio a Londra) e leggere il commento di Eugenio Scalfari su l’Espresso pubblicato giorni orsono contro chi professa ateismo e agnosticismo. 

L’autorevole collega avrebbe dovuto esserci a Londra, all’International Conference on Freedom of Conscience and Expression, alla quale hanno preso parte oltre 70 intellettuali da 30 paesi del mondo, che si sono dati appuntamento in una sontuosa sala con oltre 250 persone.

Forse Scalfari sottovaluta che in alcuni di questi paesi, a maggioranza nel mondo musulmano, chi osa dirsi non credente rischia la prigione e la pena di morte.

Ho partecipato per la prima volta alla Secular nel 2014, e ne ero rimasta impressionata perché in soli due giorni avevo ascoltato non solo intense testimonianze di ingiustizia e ferocia fondamentalista contro la libertà di espressione ma soprattutto lucide analisi politiche che aiutavano a capire i meccanismi sociali e culturali che creano il proliferare del fondamentalismo religioso e la formidabile alleanza misogina tra visioni integraliste e patriarcali.

Ogni anno la Secular Conference cambia le parole chiave sulle quali incentrare la riflessione: quelle del 2017 sono state libertà di coscienza e di espressione. E non è un caso che dal punto di vista simbolico l’apertura dell’appuntamento internazionale sia stata la prima nazionale del film della regista Deeyah Khan Islam's Non Believers e la chiusura l’appassionato e tagliente discorso di Zineb El Rhazoui, la giornalista e attivista marocchina scampata alla strage di Charlie Hebdo e autrice di Decostruire il fascismo islamico.

Se è impossibile dar conto in modo esauriente del ricchissimo dibattito e degli spunti emersi dalla due giorni (andata in rete in diretta streaming) è però importante sottolineare che, a differenza di molte iniziative culturali e politiche analoghe, l’autorevole presenza femminile era maggioritaria sia nel pubblico così come nei diversi dibattiti tematici.

Forse proprio per questo è stata netta e corale la denuncia del pericolo dei fondamentalismi religiosi, in particolare di quello islamico perché l’Islam si propone più pervasivamente come progetto politico nelle società, reclamando in quelle secolari spazi dedicati sia dal punto di vista della legge sia come accreditamento culturale nel nome del multiculturalismo.

“Bellissima parola, multiculturalismo, - ha chiosato nella sua appassionata introduzione ai lavori di domenica la leader Femen Inna Shevchenko. - In Europa soprattutto la sinistra ha sposato la visione multiculturale quasi come una romantica definizione dell’inclusione e del rispetto di ogni diversità. Ma la sinistra e i movimenti progressisti non si accorgono che nel nome del multiculturalismo si stanno facendo spazio visioni relativiste che provano a vanificare l’universalità dei diritti umani attaccando in primo luogo quelli delle donne, i diritti riproduttivi e quelli di orientamento sessuale”. Nessuna ambiguità nelle parole di Inna, che sceglie come titolo per il suo intervento, (auspicio per la nascita di un network specifico), le parole Girls against God (Ragazze contro Dio). Inna espone i concetti chiave del suo ultimo libro, erede diretto delle tracce lasciate dal Secondo sesso di Simone de Beauvoir arrivando ai Monologhi della vagina di Eve Ensler.

Il testo, dal titolo Anatomia dell’oppressione, analizza l’odio verso ogni parte del corpo delle donne nell’ideologia fondamentalista, monito evidente del progetto di guerra misogina su scala planetaria in atto. Non solo Inna Shevchenko ma anche Zineb El Rhazoui polemizzano apertamente con l’endorsement praticato da pezzi di femminismo in Occidente nei confronti del cosiddetto femminismo Islamico. Entrambe sostengono a chiare lettere che il pensiero femminista non può essere compatibile con i dettami religiosi.

“Libere di dirsi femministe islamiche e di accogliere la visione religiosa nello spazio pubblico, - scandisce l’attivista Femen-, ma va detto forte e chiaro che la connivenza e il consenso di alcune alla religione che si fa politica mette in pericolo la libertà di milioni di altre che non vogliono sottostare alla visione di una società governata dal credo religioso. Si può anche scegliere il patriarcato, ma non si può essere ipocrite e non riconoscere i segni dell’oppressione misogina e sessista se si decide per questa strada. La religione non ha posto nella lotta femminista. Il mio sogno? Che imam, preti e rabbini si mettano in ginocchio di fronte alle donne: non per pregare ma per chiedere alle donne perdono per tutto quello che hanno fatto ai loro corpi e alle loro menti”.

Per ulteriori approfondimenti al seguente link potete trovare il contributo integrale dalla Secular Conference di Londra 2017..

Immagine di Melissa Krawczyk‏

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