Caporalato, riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù
17 luglio 2017
Secondo Yvan Sagnet, che guidò la rivolta dei lavoratori nel 2011, con la sentenza di Lecce «è stata fatta giustizia non soltanto per chi è stato vittima di quel crimine»
Per la prima volta nella storia della giustizia italiana, giovedì 13 luglio la Corte d’Assise di Lecce ha riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù in un procedimento giudiziario che interessa il mondo del lavoro. Con questa sentenza si è chiuso il primo grado del processo Sabr, relativo allo sfruttamento dei lavoratori agricoli nelle campagne di Nardò tra il gennaio del 2009 e l’ottobre del 2011. Con la condanna di 13 persone, tra imprenditori italiani e caporali stranieri, è stata in parte riconosciuta la natura di «organizzazione criminale transnazionale» proposta dal giudice delle indagini preliminari di Lecce, Carlo Cazzella.
Nella masseria Boncuri, nelle campagne di Nardò, veniva sistematicamente negata la dignità umana: i braccianti stranieri venivano sottoposti a turni di lavoro nei campi di oltre 10 ore, senza riposo settimanale, per una paga di non più di 25 euro al giorno, nella maggior parte dei casi in nero. Inoltre, una parte consistente del salario veniva trattenuta dal caporale e dall’intermediario, perché la condizione di clandestinità di gran parte dei lavoratori li poneva nella condizione di doversi piegare a qualsiasi trattamento.
Secondo le indagini, la gran parte dei lavoratori sfruttati sbarcava in Sicilia, soprattutto a Pachino, un centro noto per la coltivazione del pomodoro, e da qui le persone venivano reclutate dall’organizzazione. Gli uomini erano trattati come schiavi, ammassati in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici e arredi, costretti a pagare a prezzi fuori mercato il cibo e le bevande forniti dai caporali. Inoltre, in caso di ribellione, i loro documenti venivano requisiti.
Condizioni inaccettabili, che portarono un gruppo di lavoratori, guidato dal giovane ingegnere Yvan Sagnet, a decidere di ribellarsi denunciando e testimoniando nel processo. «Per la precisione – racconta lo stesso Sagnet – furono 700 i braccianti che si ribellarono al fenomeno odioso del caporalato, dello sfruttamento lavorativo in generale. Tra le varie azioni che misero in campo per rivendicare i loro diritti, ci fu quella di denunciare i loro aguzzini». Da allora si sono avviate tutta una serie di denunce, circa un centinaio, recepite dai vari organi e dalle varie istituzioni, tra cui la Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, che ha avviato il processo denominato Sabr, dal sorpannome del capo dei caporali, un cittadino tunisino di 40 anni. Con questa sentenza «è stata fatta giustizia – aggiunge Yvan Sagnet – perché questi imprenditori si sentivano intoccabili. Vanno avanti da decenni operando in tutta illegalità senza essere puniti».
Grazie a quella rivolta, anche la politica si è ritrovata di fronte a un fenomeno che non si poteva più negare e ignorare, e questo ha permesso di arrivare alla nuova legge sul caporalato, approvata nel 2016 con lo scopo di colpire anche i proprietari delle aziende agricole che impiegano braccianti sfruttati.
Tuttavia, la questione non riguarda soltanto i lavoratori stranieri, perché numerose altre inchieste hanno rivelato che il fenomeno dello sfruttamento agricolo tocca tutte le fasce più deboli della popolazione e affonda le sue radici in tutta la catena della produzione e della vendita. «In questi anni – spiega Sagnet – mi sono reso conto che colpire il caporalato significa soltanto agire sugli effetti. Ho scoperto che le cause reali del fenomeno risiedono nella grande distribuzione organizzata, che impone a monte prezzi dei prodotti sempre più bassi, facendo sì che una parte del nostro sistema imprenditoriale, soprattutto i contadini, non ce la facciano più a reggere, a tenere il mercato, per cui sono costretti ad abbassare il costo del lavoro». Questa considerazione non costituisce certamente un alibi nei confronti della decisione di affidarsi a manodopera sfruttata, ma pone un punto su non si può tornare indietro. L’associazione No Cap, guidata proprio da Yvan Sagnet, nasce intorno a questa riflessione. «Noi – spiega – vogliamo costruire una filiera alternativa, portare sul mercato i prodotti giusti, che rispettino la qualità del lavoro, l’ambiente e la sostenibilità di tutto il sistema».
Affrontare il problema del caporalato come sistema diffuso e non come singolo atto criminale significa quindi partire dal mercato e dai consumatori, che nei supermercati, per scelta o per necessità indotta, spesso acquistano prodotti a basso costo che non forniscono certezze né sulla provenienza geografica né su quella umana. «La battaglia culturale sul consumatore – conclude Yvan Sagnet – è molto importante. Pensiamo che sia l’unico modo per sradicare completamente la questione del caporalato, ma per questo c’è bisogno che anche i sindacati mettano in campo delle azioni mirate per sostenere i lavoratori, e che l’opinione pubblica si renda conto che siamo di fronte a una battaglia di civiltà, che riguarda tutti, italiani e stranieri».