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Il puzzle dell’integrazione passa dal Servizio Civile

Continuano a sistemarsi i tasselli per un servizio davvero universale

Alla fine del mese di maggio è stato sottoscritto un protocollo d’intesa con cui il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, il Ministero dell’Interno e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno aperto le porte a percorsi di inserimento sociale per i titolari di protezione internazionale e umanitaria attraverso i progetti di Servizio Civile Nazionale.

Questa opportunità per giovani italiani (e, da qualche anno, anche stranieri) fa vivere esperienze di solidarietà e inclusione sociale, di tutela dei diritti civili, di promozione della cultura e di integrazione. Proprio di integrazione hanno parlato i ministri nel firmare il protocollo, considerato un tassello importante per la costruzione di una cittadinanza sempre più attiva e partecipata, non solo per chi è nato in Italia. Quest’anno di volontariato, inoltre, può essere un aiuto per raggiungere l’autonomia: Massimo Gnone, responsabile dell’area migranti della Diaconia Valdese e per anni responsabile del Servizio Civile e volontariato dello stesso ente, sostiene di averlo potuto constatare anche nel pinerolese: «un ragazzo rifugiato, attraverso il servizio civile è potuto uscire dall’accoglienza e avere un piccolo sostegno economico; dopo ha potuto trovare un lavoro e avere autonomia anche dal punto di vista abitativo». Conquiste importanti, «soprattutto in un paese come il nostro – continua Gnone – dove il sistema di welfare non ha tutte le garanzie che vediamo nei paesi del nord Europa, dove per esempio la casa, l’inserimento lavorativo, i percorsi di istruzione e lingua per gli stranieri sono garantiti».

Questo protocollo dunque non è il primo passo?

«Il piano va a normare e ad aggiungersi a una conquista che c’è da più di 3 anni, al Servizio civile possono accedere sia i richiedenti asilo, sia i titolari di protezione umanitaria internazionale. Prima l’accesso era limitato ai soli cittadini italiani, mentre invece, dopo sentenze e tribunali, il servizio venne aperto anche ai richiedenti asilo e rifugiati. Un aspetto centrale perché permette, anche all’interno dei percorsi di accoglienza, di avere la possibilità per le persone accolte di compiere un anno di difesa della Patria, come dice la legge, oltre alla possibilità di svolgere un periodo di cittadinanza attiva e partecipazione. Ma spesso anche di formazione professionalizzante, sempre nell’ambito del non profit. In ogni caso, si tratta di un modo per stare con gli altri, di vedere altre realtà. Questo protocollo va anche nella direzione di tutti i piani di integrazione, come quello della Commissione europea dell’anno scorso e quelli che usciranno quest’anno: è prevista la pubblicazione di un piano nazionale di integrazione da parte del Governo, nel quale tra la condizioni più importanti ci sono la residenza, l’educazione e il lavoro, che sono tre aspetti centrali per l’inclusione dei rifugiati in Italia».

Un passo concreto, dunque: ma cosa manca a questa integrazione?

«Quello che manca nel nostro paese in tema di integrazione, prima di tutto è una visione razionale del fenomeno migratorio e dell’asilo. Poi c’è anche il fatto che titolari di diritti sanciti da convenzioni internazionali ancora oggi non li vedano riconosciuti, soprattuto per aspetti burocratici nell’applicazione della legge, che varia nelle diverse regioni italiane. Ci sono difficoltà nell’iscrizione al servizio sanitario o al mondo dell’educazione, c’è difficoltà a rendere la presenza nel nostro paese un diritto e una condizione per far sì che l’integrazione sia positiva nel lungo periodo. Senza parlare della questione del gran numero di persone che si trovano senza un titolo legale nel nostro paese dopo la conclusione del percorso di asilo. Il fatto che ci siano persone irregolari sul territorio non è solo una questione di ordine pubblico, ma anche una questione relativa alla sicurezza e ai diritti delle persone: la possibilità di accedere ai servizi sanitari o di tutela dei cittadini. Più in generale, se fin dall’inizio si danno delle possibilità per partecipare, per essere inclusi, avendo un piccolo rimborso che garantisce un minimo di autonomia, nel lungo periodo sarà molto più facile pensare a un’integrazione positiva delle persone che arrivano in Italia forzatamente».

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