Il 2 novembre 1917 il ministro degli esteri britannico, Arthur James Balfour, membro della Chiesa di Scozia, scriveva a Lord Walter Rothschild una lettera in cui esprimeva il favore dell’Inghilterra alla nascita di uno stato ebraico in Palestina: prometteva l’aiuto del governo alla creazione di questo «focolare nazionale per il popolo ebraico, e [di adoperarsi] per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni».
Se le premesse parevano buone, l’evolversi della storia ha poi smentito clamorosamente la seconda parte di questa affermazione, per quanto riguarda sia la popolazione palestinese sia quella ebraica, e ancora oggi la situazione è tutt’altro che risolta.
La commemorazione della «Dichiarazione di Balfour» può quindi diventare un’occasione per riflettere, richiamando alle proprie responsabilità i governi, ma anche le chiese, e per lavorare insieme alla risoluzione del conflitto.
È quanto sta facendo in questi giorni la Chiesa di Scozia, riunita in assemblea generale (20-26 maggio), che ha discusso lunedì 22 sulla questione a partire dal corposo documento presentato all’assemblea all’interno del Blue Book (capitolo 9, scaricabile qui), che contiene tutti i materiali e la documentazione utili per partecipare alle discussioni.
La pastora Giusy Bagnato, unica italiana presente all’assemblea in rappresentanza della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi, ha seguito il dibattito e ha rilasciato a Riforma.it un commento “a caldo” al termine della giornata, osservando innanzitutto l’impostazione della chiesa e di conseguenza dei lavori assembleari: «La chiesa di Scozia si presenta dall’inizio come una chiesa missionaria, quindi con diverse risorse che derivano da un’esperienza concreta nelle zone in questione. L’assemblea generale è quindi effettivamente un momento in cui le chiese parlano con cognizione di linguaggio. Pertanto gli interventi rispetto alla Dichiarazione di Balfour sono stati fatti da persone che hanno un vissuto anche nei territori di Palestinesi e di Israele».
Il documento presentato e discusso è un esplicito richiamo alla giustizia, alla pace, all’uguaglianza, alla libertà, ma è anche una presa di coscienza sulle proprie responsabilità: come si è svolto il dibattito?
«Il documento partiva dal centenario della dichiarazione di Balfour, ponendo la questione di che cosa possa significare dopo centro anni rispetto all’occupazione dei territori palestinesi, West Bank e Gaza. Pur non volendo affrontare la questione terribile del Medio Oriente, il documento ha cercato di fare il punto della situazione rispetto alle responsabilità delle chiese cristiane nell’occupazione dei territori palestinesi. Il dibattito è stato interessante e ha cercato di prendere in considerazione i vari aspetti, sia la necessità di creare uno stato di Israele sia la questione del negare e violare i diritti umani in Palestina. Non era possibile trovare un baricentro perché si tratta di due situazioni d’ingiustizia. Si è parlato della questione dei rifugiati, dello Stato di Israele che in quanto Stato ormai ha diritto di esistere, ma si è parlato anche delle violazioni costanti nei territori occupati, con le nuove occupazioni, e delle condizioni di vita insostenibili di questi territori, caratterizzate da un’alta mortalità infantile».
Un dibattito quindi rivolto all’attualità piuttosto che alla semplice commemorazione, con un impegno rivolto all’oggi e al domani, conclude Bagnato: «Il dibattito ha portato ad alcuni emendamenti rispetto al documento iniziale, che sottolineano la situazione dei territori occupati, una situazione che priva due popoli della possibilità di riconciliarsi. In chiusura è stato rivolto un invito che richiama la Chiesa di Scozia alla sua responsabilità nella situazione in cui le chiese cristiane si sono rese responsabili in qualche modo di un’occupazione. Il documento che ne viene fuori analizza e richiama al senso della memoria e della responsabilità: se un centenario verrà ricordato sarà il centenario di una fase storica che deve portarci a riflettere sul presente e mobilitarci per costruire un dialogo fra due popoli, che devono avere la possibilità da ambedue le parti di creare un’apertura, un incontro, una riconciliazione, un perdono. Le chiese cristiane possono soltanto essere attori attivi di tutto questo e mediatori di pace».