«A ciascuno è garantita la libertà di coscienza, la libertà di professione religiosa, compreso il diritto di professare individualmente od in comune con altri qualsiasi religione o di non professarne alcuna, di scegliere liberamente, di avere e di diffondere convinzioni religiose ed altre e di agire in conformità con esse». Recita così l’articolo 28 della Costituzione delle Federazione Russa. Principi «europei», che da ieri sera non valgono più per i Testimoni di Geova viventi nel regno di Putin. Dopo mesi di indagini e sequestri, il 15 marzo scorso il Ministero della Giustizia aveva chiesto alla Corte Suprema di decretare la chiusura del centro amministrativo dei Testimoni nei pressi di San Pietroburgo e di bandire come «estremiste» le attività delle 395 organizzazioni religiose ad esso correlate. Nella sentenza che la Corte ha emesso il 20 aprile tutte le istanze del Ministero vengono accolte: nel nome della sicurezza nazionale una pacifica minoranza religiosa è di fatto bandita dal territorio russo. Una sentenza che condanna all’illegalità 175.000 cittadini. Un fatto che avviene all’interno di una potenza mondiale, in un paese che fa parte del Consiglio d’Europa, e che in quanto tale dovrebbe garantire i diritti umani tutelati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Dal punto di vista formale, in Russia la libertà religiosa è ancora in vigore. Vale per le quattro religioni che la legge del 1997 definisce «rispettate» (Cristianesimo non ortodosso, Islam, Buddismo e Ebraismo) e vale per le altre «organizzazioni religiose» che si registrano presso le autorità. Tra queste minoranze, insieme a diversi gruppi evangelici, ci sono anche i Testimoni di Geova. Che però da almeno un decennio vivono in un clima vessatorio. Già nel 2012 una risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa aveva individuato con precisione il problema, invitando le autorità russe ad «astenersi dall’applicare la legge federale contro le attività estremiste a tutte le comunità religiose, in particolare ai Testimoni di Geova». Di tutta risposta, nel luglio del 2015 la Russia divenne l’unico paese al mondo a oscurare il portale multilingue dei Testimoni. Perché? E soprattutto: con quali motivazioni?
Il 13 aprile scorso, in occasione di una conferenza stampa convocata presso la Camera dei Deputati dagli onorevoli Gessica Rostellato (PD) e Luigi Lacquaniti (PD), lo hanno spiegato molto bene gli stessi rappresentanti legali dei Testimoni di Geova. «In risposta ai timori legati al terrorismo internazionale, dal 2002 la Russia ha adottato una legge federale contro le ‘attività estremiste’ – ha raccontato l’esperto Christian Di Blasio –. In quella prima legge l’”estremismo” era definito in termini di “incitamento alla discordia sociale, razziale, nazionale o religiosa accompagnata da violenza o istigazione alla violenza”, ma nel 2006 un emendamento ha eliminato il riferimento alla “violenza”, rendendo la legge ancora più vaga e soggetta a interpretazione». Arriviamo così al 6 luglio scorso, quando Putin firma la cosiddetta «legge Yarovaya»: un pacchetto di norme che nel nome della prevenzione di qualsiasi attività terroristica dedica ampio spazio alle «attività missionarie», vietandole dappertutto – all’interno o nei paraggi di edifici privati o appartenenti ad «altre organizzazioni religiose» – e relegandole – cosa singolare trattandosi per il testo stesso di «attività missionaria» – all’interno di edifici di culto regolarmente registrati. Misure draconiane, nelle cui maglie cade senza dubbio la vocazione evangelizzatrice tipica dei Testimoni di Geova, ma che a ben vedere potranno ledere alla vita religiosa di tutte le minoranze.
In sintesi: se, stando alle norme vigenti, qualsiasi attività che possa «favorire la discordia religiosa» può essere considerata «estremista» e il solo avvicinare un opuscolo religioso a un passante costituisce reato, si capisce su quali basi giuridiche la sentenza della Corte Suprema abbia potuto accogliere le istanze del Ministero della Giustizia. Una scelta politica, governativa e unilaterale che insieme alle proteste e alla mobilitazione solidale degli otto milioni di Testimoni di Geova sparsi per il mondo ha scatenato l’allarme di tutta la comunità internazionale. «Siamo tornati all'era sovietica – ha commentato da San Pietroburgo il portavoce della congregazione russa Yaroslav Sivulskiy, annunciando che i Testimoni ricorreranno in appello e, se necessario, anche presso la Corte europea per i diritti umani. «Quello cui stiamo assistendo in Russia – ha dichiarato Rachel Denber, vicedirettrice di Human Rights Watch per l'Europa e l'Asia centrale – è un terribile colpo inferto alla libertà di religione ed associazione. Stando così le cose una minoranza è messa di fronte a una scelta straziante: abbandonare il proprio credo o venire punita perché lo professa».
Una scelta che un giorno potrebbe riguardare altre comunità religiose presenti in Russia. In un articolo pubblicato sull’ultimo numero di «Coscienza e Libertà», la studiosa Raffaela Di Marzio ha messo in luce come a meno di un anno dalla sua entrata in vigore la «legge Yarovaya» abbia provocato numerosi problemi, e non per forza ai Testimoni di Geova: «Diversi casi sono stati segnalati anche dal mondo evangelico, tra cui quello del leader africano di una chiesa pentecostale, cittadino del Ghana, multato per 50.000 rubli per il reato di evangelizzazione, poiché aveva svolto attività di culto senza le autorizzazioni; oppure il caso di due turisti americani arrestati a Kaluga e multati per 3.000 rubli per violazione amministrativa perché in quanto protestanti stavano partecipando al culto della chiesa cristiana del paese». Se questi sono i fatti, perché, almeno apparentemente, i protestanti russi tacciono? Stando a quanto recentemente dichiarato da William Yoder, portavoce della Russia Evangelical Alliance, almeno i battisti e i luterani sarebbero visti come «religioni tradizionali» dalla giustizia e dalla Chiesa ortodossa russa: «In Russia i protestanti rischiano di cedere alla tentazione di accettare la divisione tra religioni “tradizionali” e “non tradizionali”, per il solo fatto che in buona parte rientrano nel primo gruppo». Tuttavia, secondo Michael Cherenkov, direttore di Mission Eurasia in Ucraina, la sostanziale acquiescenza dei protestanti russi rispetto alle restrizioni subite in questi anni dai Testimoni di Geova rischierebbe di «scatenare una nuova ondata di repressioni religiose», da cui nessuno potrà, dopo la sentenza di ieri sera, ritenersi fuori pericolo.
Intervenendo alla Camera nel corso della summenzionata conferenza stampa, la stessa Raffaela Di Marzio è andata con coraggio al cuore del problema: «Mi chiedo e vi chiedo quale sia il ruolo della Chiesa ortodossa russa in tutto questo. Perché quando una minoranza religiosa è discriminata, le domande vanno poste anche alla religione di maggioranza». In effetti, se la Russia di oggi si dimentica di essere costituzionalmente laica e non teme di presentarsi al mondo come uno Stato confessionista e giurisdizionalista, questo è anche dovuto al forte legame identitario che il potere politico intrattiene con la Chiesa ortodossa. Un’ortodossia intesa come elemento di unità nazionale, un’«ortodossia politica», che rischia, sul piano religioso, di trasformarsi nella totale negazione del pluralismo confessionale. Un meccanismo per nulla nuovo: che nasce nel presente, nell’epoca dei redivivi nazionalismi, e che risale la Storia, sino all’Impero degli zar.